Padri assenti
Il tribunale di Venezia, in una sentenza emessa di recente (la numero 897 del 18 aprile 2006) ha deciso la controversia tra due uomini, dei quali l’uno (che chiameremo Tizio) si affermava figlio naturale dell’altro (che chiameremo Caio). Il rapporto di filiazione è stato riconosciuto dal medesimo tribunale con sentenza passata in giudicato prima che fosse emanata la sentenza oggetto dell’articolo; cosicché possiamo dire senz’altro che Tizio era (è) figlio di Caio.
Tizio cita in giudizio Caio, riferendo: di essere nato nel 1955 da madre nubile, che aveva lavorato quale collaboratrice familiare («domestica») in casa di Caio; che la madre aveva avuto una relazione sentimentale con Caio, a seguito della quale rimase gravida; che, non appena fu noto il suo stato di gravidanza, la madre fu licenziata e tornò a vivere con i genitori; di aver vissuto in condizioni miserabili con la madre e i nonni materni; di essere stato perciò costretto ad interrompere gli studi dopo aver conseguito la licenza media, allo scopo di iniziare un’attività lavorativa; di aver lavorato prima come apprendista, poi come operaio, e di aver infine conseguito, grazie ad un corso serale, il diploma di infermiere, che gli ha consentito di iniziare a lavorare presso i servizi psichiatrici; che Caio era rimasto del tutto estraneo alla vita del figlio, rifiutando qualunque contatto con lui e di contribuire in alcun modo a soddisfare le sue esigenze di vita e di studio.
Ritiene pertanto Tizio di aver patito un danno ingiusto da parte di Caio, del quale chiede il risarcimento.
Sostiene Tizio che il danno da lui patito assume le vesti di danno patrimoniale, di danno morale e di danno esistenziale.
Il convenuto Caio si costituisce in giudizio e sostiene, tra l’altro, di non aver violato alcuna norma, non avendo egli mai saputo dell’esistenza del figlio e non avendo mai ricevuto da lui alcuna richiesta economica in oltre quarant’anni.
Il tribunale di Venezia si pone anzitutto questo problema: se possa considerarsi condotta antigiuridica il mancato mantenimento del figlio naturale non riconosciuto.
Certo che sì, dice il tribunale. Lo si desume dagli articoli 147, 261 e 277 del codice civile, e lo ha affermato più volte la corte di cassazione, ad esempio quando ha detto che «l’obbligo di mantenere i figli […] sussiste sol per il fatto di averli generati e prescinde da qualsiasi domanda» (sentenza n. 6217 del 28 giugno 1994).
Pertanto, dice il tribunale, «l’accertamento giudiziale di filiazione […] non assurge ad elemento costitutivo della condotta illegittima […], perché la sua funzione è solo quella di attribuire al figlio non riconosciuto uno status di rilievo pubblico, laddove il genitore rifiuti il riconoscimento, cosicché la sentenza potrà assumere rilievo ai fini della configurabilità della fattispecie antigiuridica esclusivamente laddove vada a garantire la conoscenza della filiazione in capo al genitore che della circostanza sia eventualmente all’oscuro».
La questione della conoscenza del rapporto di filiazione da parte del genitore è rilevante, perché presupposto dell’obbligo di risarcimento è un fatto doloso o colposo, come prevede l’articolo 2043 del codice civile.
Il tribunale, sulla base delle risultanze dell’istruttoria espletata, ritiene che sussistesse nel convenuto Caio l’elemento psicologico (dolo o colpa) richiesto da tale disposizione.
Con tutta probabilità, Caio sapeva di essere il padre di Tizio: «O. B. era consapevole del suo rapporto sessuale con V. V., era consapevole dell’allontanamento di questa da casa pochi mesi dopo detto rapporto e non è credibile non fosse consapevole delle voci che circolavano in paese e nella sua stessa famiglia sulla sua paternità: il convenuto non ha addotto alcuna specifica circostanza atta a smentire il grave quadro indiziario raccolto, in cui i singoli unitari elementi trovano il loro collante nel principio dell’id quod plerumque accidit».
L’ignoranza, ad ogni modo, non consentirebbe a Caio di farla franca, se essa dipendesse da una sua mancanza di diligenza, che il tribunale ritiene accertata nel caso di specie: «la condotta di un uomo che abbia il forte dubbio di avere procreato un figlio, che peraltro vive in condizioni di estrema indigenza, risponde ad un criterio di adeguatezza allorquando si traduca quanto meno nella verifica della fondatezza delle rivendicazioni materne di richiamo ai doveri genitoriali. Conseguentemente la scelta di non riconoscere il bambino, di non provvedere in alcun modo al suo mantenimento e, prima ancora, di ignorare qualsiasi richiamo ai suoi obblighi di responsabilità si pone quale consapevole condotta antigiuridica idonea ad integrare la fattispecie di cui all’art. 2043 c.c.».
Perciò Caio viene dichiarato tenuto al risarcimento del danno patito da Tizio, sotto vari aspetti.
In primo luogo, il tribunale ritiene che Tizio, «non supportato economicamente ed affettivamente dal padre, abbia perso l’occasione di curare adeguatamente la propria preparazione scolastica, di proseguire i propri studi sin dalla conclusione della terza media nonché di inserirsi in un contesto sociale e lavorativo adeguato alla classe ed all’ambiente di provenienza paterno»; e liquida equitativamente il danno conseguente in euro 116.375.
In secondo luogo, il tribunale riconosce l’esistenza di un danno non patrimoniale, commisurato alle privazioni subite da Tizio sino al momento in cui ha raggiunto la realizzazione personale e professionale, ritenute «lesioni al diritto della libera formazione della propria personalità (art. 2 Cost.)»; e lo liquida equitativamente in euro 61.250.
Viene invece rigettata dal tribunale la domanda di risarcimento del danno morale, asseritamente patito quale conseguenza della configurabilità del reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare (articolo 570 del codice penale).
Non è necessario, dice il tribunale, che il reato sia stato accertato in sede penale, ben potendo la configurabilità dell’invocata fattispecie delittuosa essere verificata anche soltanto ai fini della domanda di ristoro civilistico. Però qui la verifica ha esito negativo: quel reato è integrato solo se c’è il dolo, e nella causa non si è raggiunta la certezza che Caio fosse consapevole della sua paternità. Per l’illecito civile basta invece la colpa, e solo quella è stata accertata a carico di Caio.
Il padre distratto, in conclusione viene condannato a pagare al figlio euro 183.750 a titolo di risarcimento, oltre agli interessi legali dalla data del deposito della sentenza e alle spese legali, liquidate in euro 22.486 oltre accessori (rimborso spese forfettario, CPA, IVA).