L’abuso del processo
Il 20 marzo 2009 il tribunale di Varese omologò con proprio decreto un accordo di separazione personale sottoscritto dai coniugi Socrate e Santippe.
Una clausola di tale accordo prevedeva che la casa coniugale, della quale Socrate e Santippe erano comproprietari, sarebbe stata «posta in vendita, anche per l’eventuale tramite di un mediatore, al prezzo di euro 230.000,00».
Dopo qualche mese Santippe propone davanti al medesimo tribunale ricorso per procedimento sommario, al fine di ottenere la «nomina di un mediatore che si occupi, così come stabilito dall’art. 2 dell’omologa di separazione, della vendita della casa cointestata ai coniugi».
Il procedimento sommario di cognizione è stato introdotto nel codice di procedura civile da una legge del 2009 (la numero 69 del 18 giugno). E’ un procedimento che può essere esperito nelle cause di competenza del tribunale in composizione monocratica (sono escluse, per esempio, le cause di impugnazione di testamenti e di riduzione per lesione di legittima, che rientrano nella competenza del collegio), suscettibili di essere decise dopo un’istruzione sommaria (la legge non dice che cosa si debba intendere con ‘istruzione sommaria’, ma in questa espressione si può ragionevolmente far rientrare almeno tutti i casi nei quali la domanda può essere accolta o respinta sulla sola base di prove documentali). Il procedimento si conclude con ordinanza provvisoriamente esecutiva che costituisce titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale e per la trascrizione.
Il giudice del tribunale di Varese, qualificato l’accordo tra Socrate e Santippe come «funzionale alla divisione di un bene immobile comune, nella risistemazione dei rapporti patrimoniali a seguito della crisi del vincolo di coniugio», lo ritiene valido, ancorché del tutto autonomo dal regolamento della separazione in senso stretto, e si pone il problema di quale sia il rimedio giuridico offerto alle parti in un caso come quello oggetto di giudizio. Attraverso un ragionamento articolato giunge alla conclusione che il rimedio sollecitato da Santippe non è previsto dal nostro ordinamento.
Non può trovare accoglimento, afferma il giudice nell’ordinanza del 23 gennaio 2010, la pretesa di Santippe, alla nomina di un mediatore che proceda alla vendita della casa coniugale. Sia perché nell’accordo tra le parti la nomina del mediatore è prevista come eventuale, sia perché detto accordo non indica i criteri per pervenire alla nomina, sia perché non indica il bacino da cui attingere per la designazione. E’ dunque «accordo del tutto discrezionale che prevede l’insostituibile partecipazione dei contraenti alla fase esecutiva».
Per di più, risulta dall’ordinanza che il mediatore è stato comunque nominato da Socrate sin dal maggio 2009. Per Santippe, tuttavia, si tratta di operatore privo delle necessarie qualità. Tuttavia, osserva il giudice, è stata proprio Santippe ad invitare formalmente il marito «ad indicare una agenzia immobiliare di sua scelta», con ciò ingenerando in Socrate la convinzione di poter operare una scelta libera, purché immediata. L’azione di Santippe, pertanto, deve ritenersi contraria a buona fede.
Il risultato è che la domanda di Santippe viene respinta, ed ella viene condannata alla rifusione delle spese di lite in favore di Socrate (euro mille oltre accessori).
La parte più interessante dell’ordinanza è quella conclusiva, munita del titolo “Condanna ex officio”.
Dice il giudice: «all’esito del giudizio, sono emersi elementi in fatto e diritto che impongono di sanzionare la ricorrente per l’esercizio dell’azione in violazione del canone del giusto Processo». Tali elementi inducono il giudice a dichiarare la responsabilità aggravata della ricorrente ai sensi dell’articolo 96, comma III del codice di procedura civile. Si tratta di una disposizione aggiunta dalla già citata legge di riforma del 2009. Stabilisce che «in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata».
La nuova disposizione prevede una sorta di pena privata, dell’applicazione della quale viene ritenuta meritevole Santippe dal tribunale di Varese: «Sulla scorta del nuovo grimaldello normativo, il giudice può (e, invero, deve) responsabilizzare la parte che abbia proposto una domanda giudiziale senza sperimentare alcuna seria soluzione conciliativa ed adducendo — a sostegno delle proprie richieste — argomenti dai quali è possibile evincere un contegno tradottosi in un abuso dello strumento processuale. La norma risponde anche all’esigenza di preservare l’interesse pubblico ad una Giustizia sana e funzionale, scoraggiando il contenzioso fine a sé stesso che, aggravando il ruolo del magistrato e concorrendo a rallentare i tempi di definizione dei processi, crea nocumento alle altre cause in trattazione mosse da ragioni serie e, spesso, necessità impellenti o urgenze nonché agli interessi pubblici primari dello Stato che, in conseguenza dei ritardi, è sottoposto alle sanzioni previste dalla legge 89/2001, giusta l’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo».
Ed è così che l’incauta Santippe è stata condannata a pagare a Socrate, oltre alla spese di giudizio, altri trecento euro, a titolo di pena per aver abusato del processo.