Separazione dei coniugi e scioglimento della comunione legale
Il 27 aprile 1992 Socrate chiama in giudizio la moglie Santippe davanti al tribunale di Ravenna. E’ in corso tra i due un procedimento di separazione personale. Con la nuova causa Socrate chiede che sia dichiarato lo scioglimento della comunione legale ancora esistente tra i coniugi.
Santippe si costituisce in giudizio, eccependo che la domanda è improponibile e che, in ogni caso, alcuni beni indicati da Socrate come facenti parte della comunione sono in realtà di proprietà esclusiva di lei.
Viene disposta ed espletata una consulenza tecnica.
In corso di causa viene emessa e passa in giudicato la sentenza che pronuncia la separazione personale delle parti.
Con sentenza non definitiva emessa il 23 marzo 2000 (che cosa volete che siano otto annetti?) il tribunale rigetta l’eccezione di improponibilità della domanda, dichiara lo scioglimento della comunione legale e rimette il procedimento in istruttoria per le operazioni di divisione.
Con sentenza del 22 gennaio 2001 il tribunale divide tra le parti i beni mobili già appartenenti alla comunione e rimette la causa in istruttoria per procedere alla vendita della causa coniugale.
Contro la seconda sentenza propone appello Santippe, insistendo perché sia dichiarata l’improponibilità della domanda di scioglimento della comunione.
Con sentenza del 19 novembre 2004 la corte d’appello di Bologna accoglie l’appello di Santippe e dichiara l’improponibilità della domanda di scio-glimento della comunione.
Si rassegna Socrate?
Macché: ricorre per cassazione, sulla base di tre motivi. Resiste con controricorso Santippe.
Si arriva così alla sentenza della prima sezione della corte di cassazione del 26 febbraio 2010, individuata dal numero 4757.
La corte d’appello ha considerato improponibile la domanda di scioglimento della comunione legale e della conseguente divisione, nonostante sia passata in giudicato la sentenza che ha pronunciato la separazione personale.
La questione di diritto sottoposta alla corte di cassazione è questa: posto che lo scioglimento della comunione consegue al passaggio in giudicato della sentenza di separazione (ovvero all’omologa della separazione consensuale), tale passaggio in giudicato deve avvenire prima che sia proposta la domanda di scioglimento della comunione, o è sufficiente che avvenga prima che il giudice pronunci lo scioglimento?
Nel linguaggio astruso dei teorici del processo civile, l’alternativa viene espressa in questi termini: il passaggio in giudicato della sentenza di separazione (ovvero l’omologa della separazione consensuale) è condizione del processo o dell’azione? O anche: è condizione di proponibilità della domanda o di accoglimento della stessa?
Se è condizione del processo, deve sussistere prima che la causa inizi, se è condizione dell’azione è sufficiente che sussista nel momento in cui il giudice si pronuncia sulla domanda.
Nella causa tra Socrate e Santippe quella condizione si è perfezionata dopo l’inizio della causa e prima che essa fosse decisa, cosicché la questione è rilevante per la decisione.
L’articolo 191 del codice civile, osserva la corte di cassazione, prevede le cause di scioglimento della comunione e, tra esse, la separazione personale (giudiziale o consensuale). Secondo la costante giurisprudenza della corte, lo scioglimento si perfeziona col passaggio in giudicato della sentenza di separazione ovvero con l’omologa della separazione consensuale. Da questo la corte desume che «nel passaggio in giudicato (o nell’omologa) si individua dunque il momento in cui sorge l’interesse ad agire, concreto ed attuale, volto allo scioglimento della comunione e alla divisione, ma esso può anche riguardarsi come il fatto costitutivo del diritto ad ottenere tale scioglimento e la conseguente divisione».
Si tratta allora, conclude la corte, di condizione dell’azione, e non di un presupposto processuale: «il passaggio in giudicato (o l’omologa), come elemento decisivo della vicenda costitutiva del diritto allo scioglimento della comunione legale, comporta che tale vicenda debba ritenersi compiutamente realizzata, con la conseguenza che l’eventuale carenza o incompletezza originaria diviene irrilevante, perché sostituita dalla realizzazione compiuta del fatto costitutivo del diritto azionato, e non può precludere la pronuncia di merito: ciò che sempre accade ove, nelle more del giudizio, si realizzi uno dei requisiti, prima carente o inesistente, previsto dalla legge per l’acco-glimento di una domanda giudiziale. Del resto la regola per cui la sopravvenienza in corso di causa di un fatto costitutivo del diritto rimuove ogni ostacolo alla decisione del merito della domanda, e il più generale principio circa la necessità di esistenza delle condizioni di accoglimento della domanda al momento della decisione, appaiono espressione dell’ancor più generale principio di economia processuale».
Pertanto la sentenza della corte d’appello viene cassata, con rinvio alla medesima corte, la quale non potrà, sulla base del principio affermato dalla cassazione, che rigettare l’appello di Santippe contro la sentenza del tribunale.