Termine essenziale e caparra confirmatoria
Con atto notificato nel mese di febbraio del 1997 Paperoga cita in giudizio Qui, Quo e Qua davanti al tribunale di Firenze. Sostiene che l’anno prima si è impegnato ad acquistare un terreno da Qui, Quo e Qua, i quali si sono impegnati a venderglielo, per un certo prezzo, entro il 1996. Ha versato una caparra confirmatoria e doveva versare il saldo davanti al notaio. Questi però non si sono presentati per la stipula dell’atto di compravendita. Perciò a fine gennaio 1997 ha comunicato ai promittente venditori il recesso dal contratto preliminare. Chiede al tribunale di dichiarare che il recesso è legittimo e di condannare Qui, Quo e Qua a corrispondergli il doppio della somma versata a titolo di caparra confirmatoria.
I tre si costituiscono in giudizio e contestano il fondamento della domanda; chiedono, in via riconvenzionale, che sia accertato il loro diritto a trattenere la somma versata da Paperoga a titolo di caparra.
Entrambe le domande vengono respinte dal tribunale di Firenze con sentenza del 19 novembre 2002, che viene impugnata da entrambe le parti.
La corte d’appello di Firenze, con sentenza del 21 settembre 2004, accoglie l’appello incidentale di Paperoga e condanna Qui, Quo e Qua a corrispondergli il doppio della somma da lui versata a titolo di caparra confirmatoria.
La cosa finisce in cassazione, davanti alla seconda sezione, che si pronuncia con sentenza n. 21838 depositata il 25 ottobre 2010.
Col primo motivo di ricorso Qui, Quo e Qua lamentano che erroneamente, con la sentenza impugnata, sia stato ritenuto essenziale il termine del 31 dicembre 1996, concordato nel contratto preliminare per la stipulazione del definitivo. Secondo i ricorrenti, la corte d’appello avrebbe dovuto invece aderire alla tesi della non essenzialità, innanzitutto in base al criterio ermeneutico letterale, perché era stato pattuito che la vendita dovesse avvenire “entro e non oltre” il giorno suddetto; inoltre difettavano elementi che potessero far propendere per la tesi contraria; né è stata compiuta alcuna indagine sull’interesse che le parti potessero avere all’inderogabilità del termine in questione.
Stabilisce l’articolo 1457 del codice civile:
“Se il termine fissato per la prestazione di una delle parti deve considerarsi essenziale nell’interesse dell’altra, questa, salvo patto o uso contrario, se vuole esigerne l’esecuzione nonostante la scadenza del termine, deve darne notizia all’altra parte entro tre giorni”.
“In mancanza, il contratto si intende risoluto di diritto anche se non è stata espressamente pattuita la risoluzione”.
Secondo la corte, che richiama la propria giurisprudenza, l’uso dell’espressione ‘entro e non oltre’ non è sufficiente per concludere che il termine sia stato ritenuto essenziale dalle parti del contratto, ma nemmeno per concludere che non lo sia stato. Occorre considerare la natura e l’oggetto del contratto, le espressioni usate, il comportamento anche successivo delle parti. La corte di appello non si è sottratta a questa indagine e la sua conclusione sull’essenzialità del termine è il frutto coerente di essa. Perciò il primo motivo di ricorso viene disatteso.
Viene disatteso anche il terzo motivo, col quale Qui, Quo e Qua sostengono che la Corte d’appello, avendo ritenuto il contratto risolto di diritto, avrebbe dovuto escludere la possibilità per Paperoga di recederne e quindi di pretendere la restituzione del doppio della caparra, anziché il risarcimento dei danni da provare nel loro esatto ammontare.
Niente affatto, dice la corte: noi abbiamo sempre ritenuto che la risoluzione del contratto, anche quando consegue di diritto all’inosservanza di un termine essenziale, non preclude l’esercizio della facoltà di recesso prevista dall’articolo 1385 del codice civile (col conseguente diritto di avere una somma corrispondente al doppio della caparra confirmatoria). Rientra nell’autonomia privata la facoltà di rinunciare agli effetti della risoluzione del contratto per inadempimento, per recedere da esso ed esercitare dei conseguenti diritti riguardo alla caparra.
Qui, Quo e Qua vanno invece a segno col secondo motivo. Secondo loro ha sbagliato il giudice di secondo grado nel ritenere legittimo il recesso del promittente compratore, senza verificare se il presunto inadempimento dell’altra parte fosse dotato dell’indispensabile requisito della gravità.
La corte dà loro ragione. Il recesso può considerarsi legittimo solo se l’inadempimento dell’altra parte non sia di scarsa importanza: «Lo stesso giudice a quo ha avvertito l’esigenza di compiere la valutazione di cui si tratta, ma in proposito si è limitato soltanto a rilevare che gli appellanti principali “in sostanza sono essi stessi ad ammettere la loro (grave) inadempienza”. È dunque mancata del tutto ogni giustificazione di tale assiomatica qualificazione dell’inadempimento dei promittenti venditori, la cui “gravità” avrebbe dovuto essere valutata in relazione alla sua importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra parte, applicando i criteri elaborati in materia dalla giurisprudenza».
La valutazione della gravità dell’inadempimento è riservata al giudice di merito. Perciò la corte di cassazione cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della corte di appello di Firenze, davanti alla quale le parti daranno vita al prossimo episodio della loro appassionante tenzone.