Quanto vale la casalinga
Un incidente stradale coinvolge Rosario, che guidava una motocicletta, e Salvatore, che guidava un’automobile.
Nell’incidente resta gravemente ferita Concetta, trasportata sulla motocicletta da suo marito Rosario.
Concetta fa causa a Rosario e Salvatore, chiedendo che siano condannati, in solido tra loro ai sensi dell’articolo 2055 del codice civile e con le rispettive compagnie assicuratrici della responsabilità civile, al risarcimento dei danni in suo favore.
Il tribunale di Catania attribuisce la responsabilità del sinistro a Salvatore per l’80% e a Rosario per il 20%. Condanna i convenuti in solido tra loro e con le rispettive compagnie assicuratrici al risarcimento dei danni cagionati a Concetta, liquidati in complessivi euro 125.188,14.
Su appello di Concetta e delle due compagnie assicuratrici, la corte d’appello di Catania riduce il risarcimento dovuto a Concetta ad euro 93.891,10. La corte afferma che il risarcimento va ridotto, in relazione al danno biologico, del 25%, in quanto è stato accertato che Concetta non indossava il casco protettivo al momento dell’incidente; se l’avesse indossato le lesioni da lei patite, riguardanti in gran parte il volto e il cranio, sarebbero state presumibilmente ridotte in quella percentuale. Ribadisce il rigetto della domanda di risarcimento del danno patrimoniale, già pronunciato in primo grado dal tribunale, affermando che Concetta non ha dimostrato tale danno.
Concetta è testarda, e va in Cassazione, con un ricorso sorretto da due motivi.
Il ricorso viene assegnato alla terza sezione della corte di cassazione, la quale decide su di esso con sentenza n. 23573/11, depositata l’11 novembre 2011.
Il primo motivo concerne il mancato riconoscimento del danno patrimoniale.
Il consulente tecnico d’ufficio nominato in primo grado ha attribuito a Concetta un’invalidità permanente conseguente all’incidente pari al 42%, ma ha escluso che le lesioni da lei patite incidano sulla sua attività di casalinga.
La corte d’appello ha disposto il rinnovo della consulenza tecnica. Il nuovo consulente ha riconosciuto alle lesioni patite da Concetta un’incidenza sulla sua capacità lavorativa di casalinga del 25%. La domanda di risarcimento del danno patrimoniale viene però rigettata dalla corte d’appello perché Concetta non avrebbe fornito elementi idonei a dimostrare un danno patrimoniale in conseguenza delle lesioni.
Osserva in proposito la corte di cassazione:
Per quanto riguarda, in particolare, la casalinga, è ormai certo (vedi Cass. Sez. III, 13 luglio 2010, n. 16392) che il danno da riduzione della capacità di lavoro, sofferto da persona che – come la casalinga – provveda da sé al lavoro domestico, costituisce una ipotesi di danno patrimoniale, e non biologico. Ne consegue che chi lo invoca ha l’onere di dimostrare che gli esiti permanenti residuati alla lesione della salute impediscono o rendono più oneroso (ovvero impediranno o renderanno più oneroso in futuro) lo svolgimento del lavoro domestico; in mancanza di tale dimostrazione nulla può essere liquidato a titolo di risarcimento di tale tipologia di danno patrimoniale. Ma l’applicazione di tali principi non può avvenire automaticamente e senza analizzare le peculiarità del caso concreto. Il C.T.U. nominato in primo grado attribuì alla B. una invalidità permanente pari al 42% ma escluse che le lesioni potessero incidere sulla svolgimento della sua attività. Proprio in considerazione delle ragioni addotte con l’atto di appello, la stessa Corte territoriale ritenne opportuno disporre il rinnovo della C.T.U. e il nuovo consulente attribuì alle lesioni patite dalla B. una incidenza sulla capacità lavorativa di casalinga del 25%. A questo punto si impongono due considerazioni: a) non è razionale ritenere che una invalidità permanente particolarmente elevata non spieghi alcuna conseguenza sull’attività di casalinga; b) è contraddittorio disporre il rinnovo della C.T.U. in accoglimento di tesi prospettate con l’atto di appello e poi, dopo l’esito favorevole dell’accertamento medico – legale, rimproverare alla parte istante di non avere offerto elementi idonei. Il motivo in esame merita, dunque, accoglimento.
Viene invece ritenuto infondato il secondo motivo del ricorso, col quale Concetta ha censurato la sentenza della corte d’appello nella parte in cui riconosce il suo concorso di colpa per non aver indossato il casco.
La corte perciò cassa la sentenza della corte d’appello in relazione al primo motivo, e rinvia alla stessa corte d’appello di Catania in diversa composizione, che avrà il compito di liquidare il risarcimento del danno patrimoniale patito da Concetta e le spese del giudizio di cassazione.