Il silenzio dei colpevoli
Nel 2009 il tribunale di Velletri condanna Quinto alla pena di sei anni e sei mesi di reclusione, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e alla sospensione dell’esercizio della potestà genitoriale durante l’esecuzione della pena per il reato di lesioni gravissime in danno della moglie Clodia, avendole trasmesso il virus della immunodeficienza a mezzo di rapporti sessuali consumati senza precauzione, nella consapevolezza di essere affetto da malattia da HIV, e con ciò cagionandole una malattia probabilmente insanabile, con pericolo di vita. Quinto viene condannato anche al risarcimento dei danni e alla rifusione delle spese di lite in favore di Clodia, costituitasi parte civile.
La sentenza viene riformata dalla corte di appello di Roma, che assolve Quinto perché il fatto non costituisce reato.
Secondo la corte d’appello manca la prova del fatto che l’imputato nutrisse motivi di ragionevole sospetto sul fatto che la sintomatologia manifestatasi prima del ricovero dipendesse da infezione HIV e che quindi, quale portatore dell’infezione, potesse contagiare altri soggetti.
Su ricorso della procura generale presso la corte di appello di Roma, la quinta sezione penale della corte di cassazione dice la sua ultima parola sulla vicenda con sentenza n. 38388/12, depositata il 3 ottobre 2012.
Osserva la procura generale nella sua impugnazione che a Quinto è stato contestato non solo di aver omesso di informare la moglie, ma anche di averle impedito di curarsi adeguatamente, in quanto: a) durante il proprio ricovero in ospedale aveva fatto credere alla moglie che i medici comunicavano solo con i pazienti e non con i familiari, impedendo alla moglie di conoscere la verità e di intraprendere tempestive ed adeguate iniziative terapeutiche; b) dopo le dimissioni dall’ospedale, l’imputato, per nascondere l’infezione, assumeva farmaci in confezioni prive di etichetta, dicendo che si trattava di cortisone; c) ai primi sintomi della moglie, oltre ad opporsi al ricovero in ospedale, l’accompagnava dal medico di famiglia, riferendo che la donna era depressa e facendole così prescrivere farmaci antidepressivi.
Solo l’intervento di un altro medico, sollecitato dalla madre della donna, aveva consentito il ricovero di costei in ospedale, dove veniva diagnosticata l’infezione da virus HIV.
Menzogne e silenzi di Quinto sono stati ritenuti non rilevanti dalla corte d’appello, in quanto successivi al contagio. Secondo la procura generale, la corte ha però omesso di considerare che tali condotte fraudolente hanno cagionato il peggioramento delle condizioni di salute e il pericolo di vita di Clodia.
La Cassazione giudica il ricorso della procura generale meritevole di accoglimento, in quanto la corte di appello, nella motivazione della sentenza impugnata, ha effettivamente omesso di considerare la complessiva condotta di Quinto, che si è articolata:
a) in una componente omissiva, sotto il profilo conoscitivo, in relazione alla mancata comunicazione alla donna della propria malattia e del rischio del contagio;
b) in una componente ostativa sotto il profilo operativo, in relazione all’impedimento – con menzogne, artifici, simulazioni – di tempestiva predisposizione, da parte della moglie, di interventi idonei a intralciare, neutralizzare, impedire il radicarsi e il peggioramento della malattia, nonché il verificarsi del pericolo di vita.
Secondo la Cassazione Quinto «pur essendo in grado di rappresentarsi la concreta possibilità che la sua azione reticente e depistante potesse causare un evento diverso da quello per cui materialmente agiva (continuare indisturbato il menage familiare, lasciando in clandestinità il contagio di HIV alla moglie e ostacolando tempestivi interventi terapeutici), non ha escluso la possibilità di cagionare l’evento a rischio (l’aggravamento irreversibile della già cagionata lesione della salute della moglie): gli è mancata quindi la
controvolontà verso l’evento altro, con accettazione del rischio e quindi con la volizione dell’evento medesimo».
Viene perciò considerata errata la motivazione della decisione della corte di appello di assoluzione di Quinto per mancanza di dolo, nella forma del dolo eventuale, «in quanto la motivazione è impostata sulla ricostruzione e sulla valutazione della iniziale frazione della condotta» di Quinto, e «sulla correlata omissione di ricostruzione e valutazione della parte maggiormente significativa di tale condotta».
Sennonché la Cassazione accerta che il reato negato dalla corte di appello si è prescritto addirittura prima che fosse emessa la sentenza di primo grado. Non resta allora ai giudici della suprema corte che annullare entrambe le sentenze di merito (di primo e di secondo grado) e dichiarare l’estinzione del reato.