Padre a sua insaputa
Il 10 giugno 2008 nasce Telemaco.
Il tribunale per i minorenni di Trento, su richiesta di sua madre Clitennestra, lo dichiara figlio di Omero, nonostante l’opposizione di quest’ultimo.
Omero presenta appello, ma senza fortuna.
La corte d’appello di Trento rigetta l’impugnazione con sentenza depositata il 7 giugno 2011, affermando che correttamente il giudice di primo grado ha interpretato il rifiuto di Omero di sottoporsi all’esame del DNA come elemento a sostegno della fondatezza delle ragioni di Clitennestra. Quest’ultima, peraltro, ha offerto importanti riscontri probatori in ordine alla pregressa intimità con Omero, il quale, invece, ha negato perfino di conoscerla, venendo smentito dalla documentazione prodotta da Clitennestra (tabulati telefonici, contenuto di sms).
Secondo la corte d’appello, la motivazione addotta del rifiuto di Omero di sottoporsi all’esame, fondata esclusivamente sul suo diritto a non essere costretto ad esami clinici, è in contraddizione con la scelta di rendere pubbliche le proprie difficoltà nel rapporto sessuale, che lo avevano determinato a sottoporsi in giovane età all’impianto di una protesi, circostanza peraltro irrilevante ai fini dell’accertamento oggetto della causa, non valendo essa ad escluderne le capacità di generare.
Omero si è doluto di aver dovuto rivelare il proprio problema, senza considerare che avrebbe potuto evitare tale rivelazione sottoponendosi al semplice, e non invasivo, esame richiestogli.
Omero ricorre per cassazione con ricorso fondato su tre motivi, cui resiste Clitennestra.
Con il primo motivo del ricorso Omero denuncia carenza e/o contraddittorietà della motivazione in ordine alla esistenza di un rapporto tra le parti. Omero sottolinea che l’impianto della protesi cui è stato costretto per superare le difficoltà nel rapporto sessuale, dovute alla disfunzione erettile dalla quale è affetto, interferisce con le proprie relazioni personali, comportando una limitazione della spontaneità nel rapporto. In tale situazione, sarebbe stato inverosimile che egli intrattenesse per mesi una relazione intima con una donna, senza che costei fosse posta a conoscenza del problema, e senza che se ne avvedesse, come sostenuto da Clitennestra. Né sussiste la prova che le parti si siano mai conosciute, e, tanto meno, che abbiano intrattenuto una relazione, non potendo la indicazione corretta del numero telefonico di Omero da parte di Clitennestra costituire elemento sufficiente a comprovare dette circostanze, tenuto conto che ella non aveva prodotto, come, richiesto dal Giudice di merito, i tabulati relativi alla sua utenza.
La corte di cassazione, con sentenza n. 20235 del 19 novembre 2012, afferma che tale doglianza non può trovare ingresso nel giudizio di cassazione: «Essa si limita, invero, a rappresentare una lettura del materiale probatoria acquisito difforme rispetto a quella fatta propria dalla Corte territoriale sulla base di motivazione sufficiente ed immune da vizi logici, e pertanto insindacabile in questa sede di legittimità». In effetti, il giudice di secondo grado ha in modo non illogico valorizzato particolarmente, al fine di ritenere provata la falsità dell’affermazione di Omero in ordine alla circostanza della non conoscenza di Clitennestra, i tabulati telefonici e il contenuto dei messaggi inviati dall’utenza intestata allo stesso Omero.
Con la seconda censura Omero deduce violazione dell’art. 269 del codice civile, e carenza e/o contraddittorietà della motivazione. A norma dell’art. 269 del codice civile la sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra la madre e il preteso padre all’epoca del concepimento non costituiscono prova della paternità naturale. Secondo Omero Clitennestra avrebbe fornito una versione confusa e priva di dettagli e riscontri delle circostanze della sua pretesa relazione con lui.
Anche tale doglianza, secondo la cassazione, non supera la soglia dell’ammissibilità: «Essa, infatti, risulta sostanzialmente volta – al di là del formale richiamo dell’art. 269 cod. civ., asseritamente violato dalla sentenza impugnata – a conseguire il risultato di una inammissibile rivisitazione in sede di giudizio di legittimità delle circostanze di fatto poste dalla Corte di merito a fondamento della propria decisione sulla scorta di una motivazione esauriente e priva di vizi logici».
Non resta che il terzo motivo, col quale Omero lamenta violazione di legge, carenza e/o illogicità della motivazione in ordine al rifiuto del medesimo ricorrente di sottoporsi all’esame ematico.
Premesso che la ragione di tale rifiuto sarebbe da ravvisare nella esigenza di Omero di non subire ulteriori pesanti violazioni della sua privacy, dopo essere stato costretto a rivelare dati sensibili attinenti alla sua salute, sostiene Omero che, nel giudizio per la dichiarazione giudiziale della paternità naturale, il rifiuto del presunto padre di sottoporsi alle prove ematologiche ed all’esame del DNA costituisce solo un comportamento valutabile ex art. 116, secondo comma, del codice di procedura civile, ma non è sufficiente a fondare un giudizio di paternità naturale, in mancanza di altre concomitanti, convergenti ed univoche prove. Sostiene inoltre che l’esame ematogenetico non può essere giustificato alla stregua della innocuità del prelievo, tale da non violare la personalità del presunto genitore, essendo in giuoco il limite posto alla libertà personale, conseguente alla indiretta coercizione processuale. Aggiunge che, avuto riguardo alla avvenuta eliminazione del vaglio di ammissibilità dell’azione di accertamento giudiziale della paternità, sarebbe contrario al diritto di difesa e all’onere di provare le allegazioni l’attivare il giudizio limitandosi alla richiesta dell’esame genetico senza offrire alcun riscontro documentale o testimoniale.
Quest’ultima censura viene ritenuta ammissibile, ma è immeritevole di accoglimento da parte della corte di cassazione.
Secondo la corte, che richiama il suo costante orientamento, «la corretta interpretazione dell’art. 269, secondo e quarto comma, cod. civ. conduce ad escludere che possa sussistere un ordine gerarchico delle prove riguardanti l’accertamento giudiziale di paternità e maternità. Il secondo comma stabilisce espressamente che la prova può essere data con ogni mezzo, con l’unico limite, indicato nel quarto comma, costituito dal fatto che il quadro probatorio non può consistere nelle sole dichiarazioni della madre e nella sola esistenza di rapporti tra la madre ed il preteso padre all’epoca del concepimento. All’interno di questo parametro, il giudice può liberamente valutare le prove, non sussistendo al riguardo limiti legali (art. 116, primo comma, cod. proc. civ.), e può trarre argomenti di prova dal contegno processuale delle parti (art. 116, secondo comma, cod. proc. civ.). Deve, pertanto, escludersi che il rifiuto ingiustificato di sottoporsi alla prova ematologica possa essere valutato solo se sia stata provata aliunde l’esistenza di rapporti sessuali tra il presunto padre e la madre naturale. […] Il rifiuto ingiustificato di sottoporsi agli esami ematologici costituisce, dunque, un comportamento valutabile da parte del giudice ai sensi dell’art. 116 c.p.c., anche in assenza di prove dei rapporti sessuali tra le parti, in quanto è proprio la mancanza di riscontri oggettivi assolutamente certi e difficilmente acquisibili circa la natura dei rapporti intercorsi e circa l’effettivo concepimento a determinare l’esigenza di desumere argomenti di prova dal comportamento processuale dei soggetti coinvolti, potendosi trarre la dimostrazione della fondatezza della domanda anche soltanto dal rifiuto ingiustificato a sottoporsi all’esame ematologico del presunto padre, posto in opportuna correlazione con le dichiarazioni della madre. Ne consegue, contrariamente a quanto sostenuto nel terzo motivo di ricorso, che non sono necessari, ai fini dell’accoglimento della domanda, ulteriori riscontri probatori a conferma delle dichiarazioni della madre naturale perché possa darsi rilievo a detto rifiuto, dovendo essere valorizzate, proprio per la natura e l’oggetto delle circostanze di fatto da accertare, le ragioni dello stesso, che, nella specie, la Corte di merito ha ritenuto non fondate su alcuna giustificazione plausibile, attesa la tipologia, del tutto non invasiva ed innocua, dell’esame da svolgere, il cui esito consente, in effetti, non solo di escludere in modo assoluto la paternità, ma anche di confermarla con un grado di probabilità che, alla stregua delle attuali conoscenze scientifiche, supera normalmente il 99 per cento».
Perciò Omero si vede respingere anche il ricorso per cassazione, ed è condannato a pagare a Clitennestra le spese dell’ultimo grado di giudizio, liquidate in complessivi euro 2.700,00, di cui euro 2.500,00 per compensi, oltre agli accessori di legge.