Maltrattamenti in famiglia
L’articolo 572 del codice penale, avente come rubrica “Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli”, stabilisce testualmente:
Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da uno a cinque anni.
Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a otto anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a venti anni.
Nella maggior parte dei casi, questo reato viene commesso dal marito nei confronti della moglie e/o dei figli, ma non sono rari i casi nei quali il marito interpreta il ruolo di parte offesa.
Accadde a Piero, la cui moglie Alberta, a seguito di giudizio abbreviato, fu condannata per tale ragione dal giudice per l’udienza preliminare di Nola. Il difensore di Alberta presentò appello, che fu in parte accolto dalla corte d’appello di Napoli, la quale riconobbe ad Alberta le attenuanti generiche e quella del vizio parziale del mente, riducendo conseguentemente la pena determinata dal GUP.
Contro la sentenza della corte d’appello il difensore dell’imputata propone ricorso per cassazione, fondato sui seguenti motivi:
1) Inosservanza o erronea applicazione dell’art. 42 del codice penale, atteso che la corte d’appello non avrebbe adeguatamente considerato che i disturbi comportamentali dell’imputata, certificati dalla documentazione sanitaria e legati ad una sindrome depressiva ed all’abuso di alcol, dimostrerebbero l’insussistenza dell’elemento psicologico del reato di maltrattamenti, tenuto conto del fatto che gli episodi aggressivi e violenti denunciati dalle persone offese non erano abituali, ma legati all’occasionale assunzione di alcolici.
2) Contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, atteso che la corte napoletana non avrebbe adeguatamente soppesato le denunce del marito dell’imputata e non avrebbe considerato l’assenza di pericolosità sociale della medesima, la mancanza di alcuna sofferenza psichica delle figlie —ingiustificatamente private della presenza materna — e la totale assenza della figura paterna.
La sesta sezione penale della corte di cassazione, giudicando sul ricorso, lo dichiara inammissibile per manifesta infondatezza.
La corte evidenzia che il giudice di appello, «dopo avere ripercorso i diversi contributi probatori, ha ritenuto provato che Alberta abbia posto in essere reiterati comportamenti vessatori e violenti in danno dei familiari, che cagionavano agli stessi sofferenze fisiche e morali. I giudici d’appello hanno attentamente valutato la circostanza che le condotte penalmente rilevanti dell’imputata A. erano collegate ad una situazione patologica connotata da discontinuità comportamentale, tale da giustificare, in linea con quanto concluso dal perito, il riconoscimento del vizio parziale di mente in relazione ad un disturbo della personalità borderline ed a dipendenza da alcol. La Corte territoriale ha inoltre posto in luce come la ricorrente non abbia mai inteso seriamente curare tale patologia, rifiutando terapie e i ricoveri ed interrompendo l’unico ricovero cui si era sottoposta. Il giudice a quo ha dunque concluso che i fatti, così come ricostruiti, integrano il contestato reato di cui all’art. 572 cod. pen., rilevando che esso non può essere escluso dalla discontinuità delle condotte maltrattanti né dal fatto che esse siano poste in essere per un arco di tempo limitato, dovendo l’abitualità essere valutata con riferimento alla sofferenza fisica o morale inflitta alle persone offese».
D’altra parte, aggiunge la corte, «integra l’elemento oggettivo del delitto di maltrattamenti in famiglia il compimento di più atti, delittuosi o meno, di natura vessatoria che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, senza che sia necessario che essi vengano posti in essere per un tempo prolungato, essendo, invece, sufficiente la loro ripetizione, anche se per un limitato periodo di tempo».
Non può, infine, secondo la corte, «essere condivisa la tesi difensiva circa l’insussistenza del dolo del reato in oggetto in considerazione della sindrome depressiva dell’imputata e della sua inclinazione ad abusare di bevande alcoliche». Il fatto che la condotta criminosa sia stata tenuta dall’imputata durante lo stato di ubriachezza è irrilevante, posto che l’ubriachezza non esclude il dolo. La presenza dell’elemento soggettivo del reato è peraltro confermata dal fatto che Alberta ha consapevolmente rifiutato di sottoporsi alle cure necessarie per risolvere i suoi problemi psichiatrici e di alcoldipendenza.
Pertanto il ricorso viene dichiarato inammissibile, con la conseguenza che Alberta viene condannata al pagamento delle spese processuali e della somma di mille euro in favore della cassa delle ammende.