La storia infinita del danno non patrimoniale
Marco Antonio perde la vita in conseguenza dello scontro tra la sua automobile e un’altra.
I genitori e la sorella di Marco Antonio citano il conducente dell’altra automobile, il proprietario di essa e la società assicuratrice di quest’ultimo davanti al tribunale di Firenze. Chiedono la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni e la ottengono, con sentenza del 2005.
La sentenza viene impugnata in via principale dalla compagnia assicuratrice, che ritiene erronea l’attribuzione al proprio assicurato della responsabilità esclusiva del sinistro ed eccessiva la stima del danno.
I parenti di Marco Antonio appellano in via incidentale, lamentando invece una sottostima del danno.
Con sentenza del 14 luglio 2010 la corte d’appello di Firenze accoglie parzialmente l’appello principale e rigetta quello incidentale. Attribuisce a Marco Antonio un concorso di colpa nella misura del 30 per cento, e ridetermina, riducendolo, l’ammontare del danno non patrimoniale.
I parenti di Marco Antonio ricorrono per cassazione.
Il ricorso viene assegnato alla terza sezione civile della corte, che si pronuncia con sentenza n. 9320, depositata l’8 maggio 2015.
I primi due motivi di ricorso sono dichiarati inammissibili, così come il quarto.
I ricorrenti vanno però a segno col terzo motivo, che secondo la corte esprime due censure distinte.
Con la prima «i ricorrenti deducono che la Corte d’appello ha liquidato in modo unitario ed indistinto sia il pregiudizio non patrimoniale da essi patito in conseguenza della morte della persona cara; sia il danno alla salute da invalidità permanente, consistito in una malattia psichica ed anch’esso causato dall’evento luttuoso».
Con la seconda «i ricorrenti lamentano che la Corte d’appello avrebbe sottostimato il danno non patrimoniale da essi patito in conseguenza della morte del proprio familiare».
La corte ritiene fondata la prima censura, e la seconda assorbita dall’accoglimento della prima.
La motivazione dell’accoglimento della prima censura è un piccolo trattato sul danno non patrimoniale. Merita di essere esposta estesamente.
Rileva la corte che la corte d’appello ha accertato in facto che la morte di Marco Antonio «ha causato ai suoi familiari sia la intuibile sofferenza derivante dal lutto, sia un danno alla salute, consistito in una malattia psichica».
La corte d’appello ha però ritenuto in iure che tali pregiudizi «dovessero essere liquidati unitariamente, perché il danno non patrimoniale ha natura unitaria», e richiamando a sostegno di tale affermazione la nota sentenza della sezioni unite numero 26972 dell’11 novembre 2008.
Per la corte di cassazione «questa affermazione è erronea in diritto, e l’errore è duplice: da un lato, non avere fatto corretta applicazione dell’art. 1223 cc; dall’altro, non avere correttamente applicati i principi stabiliti dalla sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte».
«L’art. 2056 cc stabilisce infatti che la liquidazione del danno derivante da fatto illecito deve avvenire in base alle regole stabilite dall’art. 1223 cc. L’art. 1223 cc, a sua volta, stabilisce che la liquidazione del danno deve avere riguardo alla “perdita subita” dal danneggiato. La “perdita” subita dal danneggiato non si identifica col diritto leso, ma costituisce la conseguenza della lesione. Il “danno risarcibile” è dunque la perdita causata dalla lesione di un interesse giuridicamente protetto. La distinzione concettuale tra la lesione dell’interesse e la perdita che ne deriva ha molte conseguenze pratiche: da un lato, infatti, ne viene che il danno non può mai consistere nella mera lesione del diritto in sé e per sé considerata, ma deve provocare un pregiudizio concreto: altrimenti si sarebbe al cospetto d’una iniuria sine damno, come tale improduttiva d’effetti giuridici. Dall’altro lato, ne viene che la lesione d’un solo interesse può provocare pregiudizi diversi (così, ad esempio, la lesione dell’interesse all’integrità fisica può provocare sia un danno biologico, sia uno patrimoniale da perdita del reddito); così come la lesione di interessi diversi può provocare un pregiudizio unitario (ad esempio, l’uso indebito e diffamatorio del nome altrui, che pur ledendo il diritto al nome ed all’onore, provoca una unitaria ed inscindibile lesione della reputazione)».
Aggiunge la corte che quando il giudice «sia chiamato a liquidare il danno da fatto illecito, deve avere riguardo unicamente alla perdita subita daldanneggiato, non al numero di diritti che il fatto illecito ha leso. La “perdita” causata dal fatto illecito, di cui all’art. 1223 cc, consiste nella diminuzione di valore d’un bene patrimoniale o d’un interesse non patrimoniale».
Una corretta liquidazione esige, secondo la corte, tre passaggi: l’individuazione dell’interesse protetto che si assume violato; l’accertamento della perdita (patrimoniale o non) che ne è derivata; la quantificazione del valore perduto.
Applicando questo procedimento al caso di Marco Antonio, va rilevato che «l’illecito ha leso l’interesse dei congiunti della vittima alla conservazione del vincolo affettivo che li legava a quest’ultima. Dalla lesione di questo interesse, tuttavia, sono derivate due diverse perdite concrete: da un lato, la perdita della serenità derivante dal vincolo familiare; dall’altro, la perdita della salute».
Poiché salute e serenità familiare sono beni oggettivamente diversi, il pregiudizio ad essi arrecato andava «liquidato separatamente, in applicazione del precetto di cui all’art. 1223 cc, che impone una liquidazione parametrata alla “perdita subita”.
Segue la cassazione della sentenza d’appello, con rinvio a quest’ultima perché proceda «ad una nuova stima del danno non patrimoniale patito dagli attori», attenendosi al principio di diritto affermato dalla corte di cassazione:
«Il risarcimento del danno da fatto illecito presuppone che sia stato leso un interesse della vittima, che da tale lesione sia derivata una “perdita” concreta, ai sensi dell’art. 1223 cc, e che tale perdita sia consistita nella diminuzione di valore d’un bene o d’un interesse. Pertanto quando la suddetta perdita incida su beni oggettivamente diversi, anche non patrimoniali, come il vincolo parentale e la validità psicofisica, il giudice è tenuto a liquidare separatamente i due pregiudizi, senza che a ciò osti il principio di omnicomprensività del risarcimento del danno non patrimoniale, il quale ha lo scopo di evitare le duplicazioni risarcitorie, inconcepibili nel caso in cui il danno abbia inciso su beni oggettivamente differenti».