Inadempienti e criminali
La seconda sezione penale della corte di cassazione, con sentenza n. 15815, depositata il 29 marzo 2017, spiega in modo chiaro perché l’inadempimento dell’obbligo di restituire una somma di denaro, anche quando può essere considerato una “mascalzonata”, non integra necessariamente un reato, come spesso pretendono i profani.
La vicenda è lineare: Virgilio stipula, in qualità di promittente venditore, un contratto preliminare di compravendita, in adempimento del quale il promittente acquirente gli versa, a titolo di acconto sul prezzo pattuito, la somma di 52.500 euro. Successivamente il contratto viene risolto, ma Virgilio rifiuta di restituire quella somma. Il promittente acquirente se ne risente e lo querela, ritenendo che il rifiuto della restituzione integri il reato di appropriazione indebita. Di regola il procedimento penale che segue a querele del genere si conclude con un rapida archiviazione, che il pubblico ministero chiede e il giudice per le indagini preliminari dispone, in quanto il fatto è considerato un mero illecito civile.
Virgilio però è sfortunato. Trova un pubblico ministero che sposa la tesi del reato e cita a giudizio Virgilio, accusandolo di appropriazione indebita, per di più aggravata dall’aver causato alla persona offesa un danno patrimoniale di rilevante gravità.
Ragioniamo sul testo normativo. Recita l’articolo 646 del codice penale: «Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a 1.032 euro».
Nel caso di Virgilio mi sembra intuitivo che la somma da lui percepita a seguito della stipula del contratto preliminare fosse sua, cosicché egli non poteva appropriarsela. Semplicemente, era tenuto a restituirla; ma questo è affare del giudice civile.
Eppure, secondo una isolata sentenza proprio della seconda sezione penale della cassazione (la numero 48136 del 2013), quel tipo di comportamento integrerebbe il reato di appropriazione indebita.
I giudici di Virgilio, tuttavia, sono di diverso avviso, cosicché Virgilio viene assolto sia in primo che in secondo grado.
Il procuratore generale presso la corte d’appello di Ancona ricorre per cassazione contro la sentenza di appello. Sostiene che le somme consegnate in acconto sul prezzo non possono considerarsi patrimonio originario di chi le riceve, in quanto, essendo consegnate con chiara finalità di destinazione, sono suscettibili di appropriazione
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La cassazione però, pur prendendo atto del precedente favorevole del 2013, ribadisce il proprio insegnamento tradizionale, che esprime in questi termini:
«… benché sotto il profilo civilistico l’acconto sia differente dalla caparra, ai fini penalistici non è possibile effettuare alcuna distinzione proprio perché sia l’acconto che la caparra non hanno alcun impiego vincolato: di conseguenza, entrando la somma di denaro a far parte del patrimonio dell’accipiens, a carico di costui, nel caso in cui il contratto venga meno fra le parti con conseguenti effetti restitutori, matura solo un obbligo di restituzione che, ove non adempiuto, integra solo gli estremi di un inadempimento di natura civilistica».
«Il ricorso, pertanto, va rigettato alla stregua del seguente principio di diritto: “Non integra il delitto di appropriazione indebita, ma un mero inadempimento di natura civilistica, la condotta del promittente venditore che, a seguito della risoluzione del contratto, non restituisca al promissario acquirente l’acconto sul prezzo del bene promesso in vendita”».