Tradimento non fa rima con risarcimento
Nel 2010 Luca cita in giudizio la moglie Ida, dalla quale si è separato, Bruno, collega di costei, la società CS, della quale sono dipendenti Ida e Bruno, nonché la società CA, capogruppo della CS.
Chiede la condanna di tutti i convenuti, in solido tra loro, al risarcimento dei danni subiti in conseguenza della violazione del dovere di fedeltà coniugale da parte della moglie, a causa della relazione da lei intrattenuta per anni con il collega Bruno, il quale l’avrebbe anche favorita nell’avanzamento in carriera.
In particolare, Luca adduce che la moglie gli ha confessato la relazione, che la suddetta relazione si è protratta dalla fine del 2003, ossia circa quattro mesi prima del concepimento del loro figlio Giovanni Maria, al periodo compreso tra gli ultimi mesi del 2007 e i primi mesi del 2008; che, pertanto, egli ha chiesto di essere sottoposto, insieme al bambino, al test di accertamento della paternità biologica; e che, a fronte di tale richiesta, Ida ha elaborato una nuova versione del fatto, secondo cui la relazione con Bruno sarebbe stata frutto della sua fantasia, motivato da risentimento nei confronti del marito.
Luca afferma che dalla scoperta della relazione extraconiugale gli è derivato un disturbo depressivo cronico. Individua la responsabilità delle società datrici di lavoro nella mancata vigilanza sui propri dipendenti al fine di evitare le conseguenze pregiudizievoli per i terzi.
Ciò premesso, Luca chiede, al suddetto titolo, il pagamento della somma di euro 14.642,02, di cui 4.642,00 per il danno alla salute e 10.000 per il danno morale.
Costituitisi in giudizio, tutti i convenuti chiedono il rigetto della domanda; Bruno, inoltre, propone in riconvenzionale domanda di risarcimento danni per la lesione al proprio onore derivante dai fatti attribuitigli nell’atto di citazione; lo stesso Bruno e le società convenute chiedono, inoltre, la condanna dell’attore per lite temeraria.
Il tribunale rigetta la domanda di Luca e quella riconvenzionale di Bruno.
Condanna Luca alla rifusione delle spese di lite in favore di tutti i convenuti.
Riconosce la temerarietà della domanda nei confronti di Bruno e delle società e condanna perciò Luca al pagamento dell’ulteriore somma di 1.500 euro in favore delle controparti.
Su appello di Luca, la corte d’appello riduce le spese liquidate in primo grado a favore delle società; conferma per il resto la sentenza impugnata.
Luca propone ricorso per cassazione, sul quale la terza sezione della corte decide con ordinanza numero 6598/2019, depositata il 7 marzo 2019.
Il ricorso viene rigettato, con una giustificazione della quale è interessare evidenziare i punti salienti:
«La violazione dei doveri discendenti dal matrimonio rileva in primo luogo all’interno del rapporto matrimoniale stesso.
Anche nell’ambito della famiglia i diritti inviolabili della persona rimangono tali, e danno diritto alla protezione prevista dall’ordinamento, cosicché la loro lesione da parte di altro componente della famiglia può costituire presupposto di responsabilità civile.
I doveri che derivano dal matrimonio non costituiscono però in capo a ciascun coniuge e nei confronti dell’altro coniuge automaticamente altrettanti diritti, costituzionalmente protetti, la cui violazione è di per sé fonte di responsabilità aquiliana per il contravventore, ma la violazione di essi può rilevare, oltre che in ambito familiare, come presupposto di fatto della responsabilità aquiliana, qualora ne discenda la violazione di diritti costituzionalmente protetti, che si elevi oltre la soglia della tollerabilità e possa essere in tal modo fonte di danno non patrimoniale.
La mera violazione dei doveri matrimoniali non integra quindi di per sé ed automaticamente una responsabilità risarcitoria, dovendo, in particolare, quanto ai danni non patrimoniali, riscontrarsi la concomitante esistenza di tutti i presupposti ai quali l’art. 2059 c.c. riconnette detta responsabilità, secondo i principi affermati nella sentenza 11 novembre 2008, n. 26972 delle Sezioni Unite, la quale ha ricondotto sotto la categoria e la disciplina dei danni non patrimoniali tutti i danni risarcibili non aventi contenuto economico.
Isolando, tra i vari doveri che derivano dal matrimonio, il dovere di fedeltà, del quale si assume la violazione nel caso in esame, ne discende che la violazione del dovere di fedeltà, sebbene possa indubbiamente essere causa di un dispiacere per l’altro coniuge, e possa provocare la disgregazione del nucleo familiare, non automaticamente è risarcibile, ma in quanto l’afflizione superi la soglia della tollerabilità e si traduca, per le sue modalità o per la gravità dello sconvolgimento che provoca nell’altro coniuge, nella violazione di un diritto costituzionalmente protetto, primi tra tutti il diritto alla salute o alla dignità personale e all’onore, richiamati del resto nelle stesse prospettazioni del ricorrente».
Aggiunge la corte che «Il dovere di fedeltà non trova il suo corrispondente quindi in un diritto alla fedeltà coniugale costituzionalmente protetto, piuttosto la sua violazione è sanzionabile civilmente quando, per le modalità dei fatti, uno dei coniugi ne riporti un danno alla propria dignità personale, o eventualmente un pregiudizio alla salute. Nel caso di specie, la corte d’appello, attenendosi a questi principi, ha escluso in radice che la violazione del dovere di fedeltà fosse stata causa della separazione (perché la moglie avrebbe svelato al marito il suo tradimento solo mesi dopo la separazione), ed ha escluso anche che il tradimento, per le sue modalità, avesse potuto recare un apprezzabile pregiudizio all’onore e alla dignità del coniuge, in quanto non noto neppure nell’ambiente circostante e di lavoro o comunque non posto in essere con modalità tali da poter essere lesivo della dignità della persona».
Quanto a Bruno, la corte osserva che «l’amante non è ovviamente soggetto all’obbligo di fedeltà coniugale – il quale riveste un evidente carattere personale -, e pertanto non potrebbe essere chiamato a rispondere per la violazione di tale dovere. Laddove si alleghi, correttamente, che il diritto violato non è quello alla fedeltà coniugale, bensì il diritto alla dignità e all’onore, non può escludersi, in astratto, la configurabilità di una responsabilità a carico dell’amante. Essa, peraltro, potrà essere affermata soltanto se l’amante stesso, con il proprio comportamento e avuto riguardo alle modalità con cui è stata condotta la relazione extraconiugale, abbia leso o concorso a violare diritti inviolabili – quali la dignità e l’onore – del coniuge tradito (si pensi, per esempio, all’ipotesi in cui egli si sia vantato della propria conquista nel comune ambiente di lavoro o ne abbia diffuso le immagini), e purché risulti provato il nesso causale tra tale condotta, dolosa o colposa, e il danno prodotto. In caso contrario, infatti, il comportamento dell’amante è inidoneo a integrare gli estremi del danno ingiusto, costituente presupposto necessario del risarcimento ex art. 2043 c.c., avendo egli semplicemente esercitato il suo diritto, costituzionalmente garantito, alla libera espressione della propria personalità, diritto che può manifestarsi anche nell’intrattenere relazioni interpersonali con persone coniugate; allo stesso modo in cui, sia pure entro i limiti delineati, resta libero di autodeterminarsi ciascun coniuge».
La pretesa di responsabilità delle società datrici di lavoro viene liquidata in modo ancora più lapidario: «non è configurabile, in ogni caso, una responsabilità (concorrente con quella del danneggiante principale) della società datrice di lavoro per non aver sorvegliato e evitato che tra i dipendenti si instaurassero relazioni personali lesive del diritto alla fedeltà coniugale; e ciò anche nel più limitato ambito della rilevanza solo indiretta della violazione di tali doveri, qualora la violazione di essi abbia dato causa alla violazione del rispetto alla dignità personale dell’altro coniuge. L’ingerenza del datore di lavoro nelle scelte di vita personali dei dipendenti integrerebbe di per sé, al contrario, la violazione di altri diritti costituzionalmente protetti, quali il diritto alla privacy nel luogo di lavoro».
In conclusione, il ricorso viene rigettato, con ulteriori spese per Luca.