La mora debendi in tema di fatti illeciti
A seguito di un incidente stradale, Ivan propone una causa nei confronti del conducente e del proprietario del veicolo antagonista, nonché della società A, assicuratrice per la responsabilità civile derivante dalla circolazione del veicolo.
Prima che inizi la causa e nel corso di essa, A versa acconti ad Ivan.
Emessa la sentenza, che accoglie la domanda di Ivan, A sostiene di aver versato acconti per un importo superiore a quello liquidato dal giudice a suo favore, e chiede la restituzione della somma versata in eccesso.
Morto Ivan, la causa prosegue nei confronti dei suoi eredi, i quali sono condannati dalla corte d’appello di Milano a restituire una certa somma.
La corte procede così:
(a) devaluta tutti i crediti di Ivan alla data del sinistro;
(b) devaluta tutti gli acconti pagati dall’assicuratore alla data del sinistro;
(c) sottrae gli acconti devalutati (b) dai crediti devalutati (a).
All’esito di questo calcolo la corte afferma che l’assicuratore ha pagato acconti per un importo superiore al credito di Ivan per 182.000 euro (in moneta devalutata alla data del sinistro), e conseguentemente condanna gli eredi di Ivan a restituire all’assicuratore tale importo, maggiorato di «interessi e rivalutazione».
Gli eredi di Ivan ricorrono per cassazione, lamentando, tra l’altro, la violazione dell’articolo 1224 del codice civile, il quale stabilisce:
«Nelle obbligazioni che hanno per oggetto una somma di danaro, sono dovuti dal giorno della mora gli interessi legali, anche se non erano dovuti precedentemente e anche se il creditore non prova di aver sofferto alcun danno. Se prima della mora erano dovuti interessi in misura superiore a quella legale, gli interessi moratori sono dovuti nella stessa misura».
«Al creditore che dimostra di aver subito un danno maggiore spetta l’ulteriore risarcimento. Questo non è dovuto se è stata convenuta la misura degli interessi moratori».
La sesta sezione civile della corte di cassazione (ordinanza numero 1637/20, depositata il 24 gennaio 2020) premette «che la norma la cui violazione è invocata dai ricorrenti (l’art. 1224 c.c.) non viene in rilievo nel presente giudizio: quella norma, infatti, disciplina gli effetti dell’inadempimento delle obbligazioni pecuniarie (obbligazioni di valuta), cioè quelle che al momento in cui sorgono sono già determinate in denaro, o determinabili con un mero calcolo matematico, senza bisogno di alcuna aestimatio da parte del giudice.
Il credito avente ad oggetto il risarcimento del danno aquiliano, invece, costituisce una obbligazione di valore: una obbligazione, cioè, il cui contenuto è determinato con riferimento ad un qualcosa che deve essere misurato (mensuratum) e che richiede una misurazione da parte del giudice, ovvero l’operazione di liquidazione, od aestimatio che dir si voglia.
L’erronea individuazione della norma violata non nuoce, tuttavia, nel presente giudizio ai ricorrenti: ed infatti l’illustrazione del motivo è chiara ed inequivoca nel prospettare l’errore che si assume commesso dalla Corte d’appello. Ciò consente a questa Corte, in virtù del principio jura novit curia, di individuare ex officio la norma che, secondo la prospettazione dei ricorrenti, deve ritenersi violata. Tale norma è l’art. 1223 c.c., nella parte in cui stabilisce che il risarcimento deve comprendere tanto la perdita subìta, quanto il mancato guadagno (c.d. principio di integralità od indifferenza del risarcimento)».
Ciò premesso, la corte giudica fondato il motivo di ricorso, e fornisce un vademecum su come procedere in casi come quello oggetto della sentenza impugnata:
«Il debitore dell’obbligo di risarcire il danno causato da un fatto illecito è in mora ex re dal giorno del fatto illecito (art. 1219 c.c.)».
«Tuttavia il risarcimento del danno da fatto illecito forma oggetto d’una obbligazione di valore e non di valuta, alla quale perciò non s’applicano le norme sulla mora nelle obbligazioni pecuniarie (art. 1224 c.c.).
Ciò non vuol dire, ovviamente, che la mora debendi in tema di fatti illeciti sia priva di effetti.
Come da tempo stabilito da questa Corte, il ritardato adempimento dell’obbligo di risarcimento del danno impone al debitore di:
(a) pagare al creditore l’equivalente monetario del bene perduto, espresso in moneta dell’epoca della liquidazione, il che si ottiene con la rivalutazione del credito, salvo che il giudice ovviamente non scelga di liquidare il danno in moneta attuale;
(b) pagare al creditore il lucro cessante finanziario, ovvero i frutti che il denaro dovutogli a titolo di risarcimento sin dal giorno del sinistro avrebbe prodotto, in caso di tempestivo pagamento; e questo danno si può liquidare anche (ma non solo) applicando un saggio di interessi equitativamente scelto dal giudice sul credito risarcitorio rivalutato anno per anno (Sez. U, Sentenza n. 1712 del 17/02/1995)».
«Queste regole ovviamente debbono trovare applicazione sia quando il debitore adempia la propria obbligazione uno actu, sia quando, prima della liquidazione definitiva, abbia versato degli acconti. In quest’ultimo caso, la soluzione del problema pratico concernente i criteri di defalco degli acconti dal credito risarcitorio va individuata alla luce della ratio della soluzione adottata da Sez. un. 1712/95, cit..
Tale ratio consiste in ciò: che la liquidazione del danno da mora nelle obbligazioni di valore deve, per così dire, “simulare” il vantaggio che il creditore avrebbe potuto ricavare dall’investimento della somma a lui dovuta, se gli fosse stata tempestivamente pagata».
«È dunque evidente che, nel caso di pagamenti in acconto, il creditore:
(a) nel periodo compreso tra il danno e il pagamento dell’acconto, a causa della mora ha perduto la possibilità di investire e far fruttare l’intero capitale dovutogli: e dunque il danno da mora deve, per questo periodo, replicare il lucro che gli avrebbe garantito l’investimento dell’intero capitale;
(b) dopo il pagamento del (primo) acconto, e per effetto di quest’ultimo, il creditore non può più dolersi di avere perduto i frutti finanziari teoricamente derivanti dall’investimento dell’intero capitale dovutogli; dopo il pagamento dell’acconto, infatti, il lucro cessante del creditore si riduce alla perduta possibilità di investire e far fruttare il capitale che residua, dopo il pagamento dell’acconto.
Questo essendo il criterio che deve presiedere alla liquidazione del danno da mora nelle obbligazioni di valore, ne segue che nel caso di pagamento di acconti, tale pagamento va sottratto dal credito risarcitorio attraverso le seguenti operazioni:
(a) rendere omogenei il credito risarcitorio e l’acconto (devalutandoli entrambi alla data dell’illecito, ovvero rivalutandoli entrambi alla data della liquidazione);
(b) detrarre l’acconto dal credito;
(c) calcolare gli interessi compensativi applicando un saggio scelto in via equitativa:
(c’) sull’intero capitale rivalutato anno per anno, per il periodo che va dalla data dell’illecito al pagamento dell’acconto;
(c”) sulla somma che residua dopo la detrazione dell’acconto (anche in questo caso rivalutata anno per anno), per il periodo che va dal suo pagamento fino alla liquidazione definitiva».
La corte ritiene che il giudice d’appello abbia sbagliato, perché non ha tenuto conto, nel suo calcolo, «della mora già maturata a favore del creditore tra la data del sinistro e quella di pagamento del primo acconto, e poi della ulteriore mora maturata sul capitale residuo (detratto il primo acconto) tra la data di pagamento del primo acconto e quella di pagamento del secondo; e così via per i successivi.
In sostanza la Corte d’appello, col criterio adottato, ha sterilizzato il credito risarcitorio vantato dall’attore dagli effetti della mora».
La sentenza viene perciò cassata, con rinvio alla corte d’appello di Milano in diversa composizione, che dovrà calcolare il credito da mora debendi col seguente criterio:
«(a) applicando un saggio scelto equitativamente sull’intero credito risarcitorio, espresso in moneta dell’epoca del sinistro, e poi rivalutato anno per anno, fino alla data di pagamento del primo acconto; in alternativa, sarà possibile applicare il suddetto saggio su una base di calcolo rappresentata dalla semisomma tra il credito risarcitorio espresso in moneta dell’epoca del sinistro, e il medesimo credito espresso in moneta dell’epoca del pagamento del primo acconto;
(b) applicando un saggio scelto equitativamente sul credito rimanente dopo la sottrazione del primo acconto, espresso in moneta dell’epoca di pagamento del primo acconto, e poi rivalutato anno per anno, fino alla data di pagamento) del secondo acconto; in alternativa, sarà possibile applicare il suddetto saggio su una base di calcolo rappresentata dalla semisomma tra il credito risarcitorio espresso in moneta dell’epoca del pagamento del primo acconto, e il medesimo) credito espresso in moneta dell’epoca del pagamento del secondo acconto;
(c) ripetendo l’operazione sub (b) per i successivi segmenti temporali intercorsi tra il pagamento dei vari acconti».