La prevedibilità e l’evitabilità dell’evento dannoso vanno accertate in concreto
Nel 2007 i genitori di Silvia agiscono davanti al tribunale di Roma per ottenere il risarcimento dei danni patiti dalla figlia minore a seguito di un incidente avvenuto nel ristorante gestito da Liutprando. Una cameriera, mentre serviva una pizza ancora fumante, era stata urtata da uno dei commensali, col risultato che la pizza era caduta sul braccio di Silvia, ustionandolo.
La domanda, respinta dal tribunale con sentenza del 20 novembre 2008, viene accolta dalla corte d’appello di Roma con sentenza del 5 luglio 2017.
La corte ritiene dimostrato che il rovesciamento della pizza sul braccio di Silvia sia stato «cagionato da un caso fortuito e precisamente da un urto improvviso ed imprevedibile» inferto alla cameriera da uno dei commensali della danneggiata.
Dal momento, tuttavia, che la vittima ed i suoi commensali costituivano una «comitiva di giovani turbolenta», ad avviso della corte per il gestore del ristorante era «del tutto prevedibile la possibilità che la cameriera fosse urtata da uno dei componenti del gruppo, di talché avrebbero dovuto essere adottate delle adeguate cautele ed attenzioni».
Liutprando propone ricorso per cassazione, fondato su quattro motivi.
La sesta sezione civile della corte decide con ordinanza numero 9997/20, depositata il 28 maggio 2020.
Col primo motivo Liutprando lamenta che la corte d’appello non abbia qualificato la domanda proposta dagli attori come domanda extracontrattuale, ai sensi dell’art. 2043 del codice civile, e di conseguenza non abbia addossato loro l’onere della prova della colpa e del nesso causale.
A detta di Liutprando, il contratto di ristorazione ha ad oggetto unicamente la fornitura, da parte del ristoratore, delle pietanze e delle bevande; cosicché l’infortunio occorso ad un cliente durante il periodo in cui si trattiene nel ristorante, originato dalla condotta di un altro avventore, non rientrerebbe nel «programma contrattuale» cui si obbliga il ristoratore.
Il motivo è ritenuto infondato dalla corte, secondo la quale «chi accede in un ristorante, stipulando per facta concludentia un contratto rientrante nel genus del contratto d’opera, ha diritto di pretendere dal gestore che sia preservata la sua incolumità fisica. Il contratto di ristorazione, infatti, nella sua struttura socialmente tipica comporta l’obbligo del ristoratore di dare ricetto ed ospitalità ad all’avventore. In mancanza di questo elemento, non di contratto di ristorazione si dovrebbe parlare, ma di compravendita di cibi preparati o da preparare. Nel contratto di ristorazione pertanto, come in quello d’albergo o di trasporto, il creditore della prestazione affida la propria persona alla controparte: e tanto basta per fare sorgere a carico di quest’ultima l’obbligo di garantire l’incolumità dell’avventore, quale effetto naturale del contratto ex art. 1374 c.c.».
Aggiunge la corte, ad abundantiam, che «gli effetti del contratto discendono:
a) dalla volontà delle parti;
b) dalla legge;
c) dall’equità (art. 1374 c.c.).
Effetto derivante dalla legge, e quindi onnipresente in ogni contratto, è l’obbligo di salvaguardare l’incolumità fisica della controparte, quando la prestazione dovuta sia teoricamente suscettibile di nuocerle.
Tale obbligo discende dall’art. 32 Cost., norma direttamente applicabile (c.d. Drittwirkung) anche nei rapporti tra privati, e sussiste necessariamente in tutti i contratti in cui una delle parti affidi la propria persona all’altra: e dunque non solo nei contratti di spedalità o di trasporto di persone, ma anche in quelli – ad esempio – di albergo, di spettacolo, di appalto (quando l’opus da realizzare avvenga in presenza del committente), di insegnamento d’una pratica sportiva, di ristorazione».
Col secondo motivo Liutprando lamenta che la corte gli abbia attribuito la responsabilità per l’accaduto, senza previamente individuare quale sarebbe dovuta essere la condotta alternativa corretta che egli avrebbe dovuto tenere, ovvero l’obbligo giuridico da lui violato.
Qui la corte gli dà ragione:
«La Corte d’appello ha accertato in punto di fatto che la vittima si infortunò perché la cameriera che stava servendo le pietanze fu urtata da una terza persona, perse l’equilibrio e lasciò cadere una pizza bollente sul braccio della danneggiata.
Accertati questi fatti concreti, la Corte d’appello ha ritenuto che tale dinamica dell’accaduto non escludesse la responsabilità del ristoratore, così ragionando:
(a) il fatto del terzo integra gli estremi del caso fortuito;
(b) il caso fortuito non esclude la colpa dell’autore del danno, se la condotta del terzo sia prevedibile od evitabile;
(c) nel caso di specie la “agitazione” dei ragazzi che componevano la comitiva presente nel ristorante era prevedibile, e si sarebbe potuta evitare da parte del ristoratore adottando “le adeguate cautele”.
3.3. La prima e la seconda delle suddette affermazioni sono corrette, la terza invece costituisce, nel caso specifico, falsa applicazione degli artt. 1218 e 1176 c.c..
È certamente vero che il fatto del terzo può integrare gli estremi del caso fortuito, ed è altresì vero che il caso fortuito, per escludere la colpa del danneggiante, deve avere due caratteristiche:
-) non poteva essere previsto, né evitato;
-) il responsabile aveva l’obbligo (legale o contrattuale) di prevederlo od evitarlo».
[…]
«La prevedibilità o l’evitabilità del caso fortuito, quando questo sia costituito dal fatto d’un terzo, non può essere presunta in astratto, ma va accertata in concreto. E l’accertamento in concreto di tali circostanze esige che si stabilisca in facto:
(a) se il professionista medio (e dunque, nella specie, il ristoratore “medio”, di cui all’art. 1176 c.c., comma 2), potesse con la diligenza da lui esigibile prevedere quel che sarebbe poi accaduto;
(b) se il professionista medio (e dunque, nella specie, il ristoratore “medio”, di cui all’art. 1176 c.c., comma 2), potesse concretamente adottare condotte diverse, e salvifiche, rispetto a quella effettivamente tenuta».
[…]
«Tale accertamento, però, nel caso di specie è mancato. La sentenza impugnata, infatti, non ha accertato in concreto la prevedibilità e l’evitabilità dell’evento dannoso, ma le ha postulate in astratto.
La decisione d’appello non ha indagato se la esagitazione della persona che urtò la cameriera fu subitanea o si protraesse da tempo, ed in tal caso da quanto tempo; non ha stabilito in che cosa sia consistita; non ha accertato se fu la cameriera ad avvicinarsi incautamente ad uno scalmanato, o se fu quest’ultimo a raggiungerla imprevedibilmente ed urtarla, allontanandosi dal posto fino a quel momento occupato; non ha accertato se vi erano stati precedenti richiami all’ordine da parte del gestore del ristorante, o se questi avesse colpevolmente tollerato l’ineducazione dei suoi avventori.
In mancanza di questi accertamenti, la Corte d’appello ha falsamente applicato gli artt. 1176 e 1218 c.c., perché ha escluso in iure l’efficacia esimente del caso fortuito, senza accertare in facto se quel caso fortuito fosse prevedibile od evitabile».
Assorbito il terzo motivo dall’accoglimento del secondo, la corte passa all’esame del quarto, col quale Liutprando lamenta che la corte d’appello abbia stimato il danno alla persona patito da Silvia in 30.000 euro, «senza ulteriori motivazioni».
Il motivo viene ritenuto manifestamente fondato.
La corte d’appello ha ritenuto accertato che Silvia, in conseguenza dell’infortunio, abbia patito «non un danno funzionale, ma solo un danno estetico non emendabile», ed ha liquidato tale pregiudizio complessivamente nell’unitaria cifra di 30.000 euro.
Tuttavia, dice la cassazione, «la sentenza non indica in cosa consistette tale pregiudizio estetico; quale ne fu l’entità; se abbia causato solo una invalidità permanente od anche una invalidità temporanea; in che termini percentuali potesse stimarsi l’invalidità da esso provocata; attraverso quali criteri è pervenuta alla determinazione del suddetto importo.
La sentenza pertanto, oltre ad adottare una motivazione solo apparente, ha finito in tal modo per violare l’art. 1223 c.c., in quanto ha liquidato il danno non patrimoniale senza accertarne in concreto l’entità».
Cassata la sentenza in relazione ai due motivi accolti, la causa viene rinviata alla corte d’appello di Roma in diversa composizione, che dovrà provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.