Il risarcimento del danno per mancata informazione su malformazioni del feto
Giovanni e Lucia, in proprio e quali rappresentanti legali del figlio Mario, citano in giudizio un’Azienda Sanitaria Locale, della quale chiedono la condanna al risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, subiti in conseguenza della non tempestiva diagnosi della sindrome di Down di cui sarebbe poi risultato affetto il figlio Mario, causata dall’errata esecuzione di un test di screening prenatale da parte del dottor D, medico in servizio presso un ospedale appartenente a detta ASL, che ha loro impedito di determinarsi alla interruzione della gravidanza, previa una completa informazione sulle condizioni di salute del nascituro, provocando così la nascita indesiderata del figlio. Allegano di aver eseguito due esami specifici al fine di accertare l’eventuale esistenza della sindrome di Down, la traslucenza nucale e l’esame del sangue mirato, in data 23 e 24 aprile 2009. I risultati degli esami sono stati approfonditi mediante un esame statistico eseguito dal dottor D, il quale, nell’inserire i relativi dati nel sistema informatico, in data 9 maggio 2009, ha erroneamente indicato, come data di esecuzione della traslucenza nucale quella del 23 maggio 2009, in luogo della data effettiva del 23 aprile 2009. A seguito di ciò, la macchina ha elaborato un risultato falsato rispetto alla realtà, indicando l’esistenza di una probabilità contenuta di presenza della sindrome di Down, tenuto conto dell’età della gestante. Sostengono gli attori che, se fosse stata inserita la data corretta, la probabilità di anomalie genetiche calcolata dal sistema sarebbe stata molto più elevata, ed essi, ove ne fossero stati resi consapevoli, avrebbero senz’altro interrotto la gravidanza. Chiedono quindi il risarcimento danni nei confronti della ASL, che quantificano in complessivi 7.235.000,00 euro.
La ASL eccepisce che il rapporto tra Lucia e il dottor D è stato di tipo libero professionale, e che rispetto ad esso l’azienda sanitaria è rimasta estranea. Chiamava in causa il medico e la società fornitrice del software, utilizzato dal dottor D per l’elaborazione dei dati.
Previo espletamento di una consulenza medico legale, il tribunale adito rigetta le domande degli attori, ritenendo che non avessero dato la prova che, seppure il dottor D avesse portato a termine senza errori il test, inserendo i dati cronologici corretti, sarebbe stato possibile interrompere la gravidanza. Nega che dalla valutazione in concreto, eseguita ex post, sia emerso un grave pericolo per la salute della madre in conseguenza della nascita del piccolo Mario (condizione stabilita dalla legge per consentire l’aborto dopo il terzo mese di gravidanza), e ritiene che gli attori non abbiano idoneamente provato che, una volta a conoscenza dell’alterazione genetica, la volontà della madre sarebbe stata, senz’altro, quella di interrompere la gravidanza. Aggiunge che l’esame eseguito erroneamente era finalizzato a fornire un dato meramente probabilistico, e che all’epoca della gravidanza di Lucia l’unico esame che avrebbe potuto fornire la certezza sulla eventuale presenza della sindrome di Down era l’amniocentesi, esame al quale Lucia, resa edotta dei rischi abortivi ad esso connessi, ha liberamente deciso di non sottoporsi. Quanto alla domanda proposta in nome e per conto del minore Mario, la rigetta affermando che l’ordinamento non riconosce il diritto “alla non vita ovvero a nascere sani”.
Giovanni e Lucia propongono appello, sostenendo di aver fornito la prova tanto dell’esistenza di una univoca volontà di procedere all’interruzione di gravidanza in caso di feto affetto dalla sindrome di Down quanto del fatto che la mancata sottoposizione di Lucia all’amniocentesi fosse riconducibile, per un verso, proprio all’alterato esito del test e, per l’altro, al suggerimento, proveniente dallo stesso dottor D, proprio in considerazione del risultato tranquillizzante del test, di non sottoporsi all’amniocentesi perché eccessivamente invasiva e rischiosa.
La corte d’appello di Firenze conferma l’esito del giudizio di primo grado, rigettando le domande di Giovanni e Lucia. Questi ultimi propongono ricorso per cassazione, articolato in cinque motivi.
La terza sezione civile della corte di cassazione decide sul ricorso con ordinanza numero 18327 del 27 giugno 2023.
La corte ritiene fondato il secondo motivo di ricorso:
«Il giudice di merito, pur avendo articolatamente espresso le ragioni del proprio convincimento, è incorso in due errori di diritto, che inficiano la correttezza della decisione».
«Come posto in rilievo dalla sentenza a Sezioni Unite n. 25767 del 2015, l’impossibilità della scelta della madre di interrompere la gravidanza […], imputabile a negligente carenza informativa da parte del medico curante, è fonte di responsabilità civile».
L’onere probatorio è a carico della madre e il thema probandum è costituito da un fatto complesso, integrato dal concorso di molteplici circostanze e comportamenti proiettati nel tempo: la rilevante anomalia del nascituro, l’omessa informazione da parte del medico, il grave pericolo per la salute psicofisica della donna, la scelta abortiva di quest’ultima. Ulteriore elemento di complessità della valutazione è costituito dal fatto che la prova verte (anche) su una determinazione di volontà interiore della donna, della quale non si può fornire rappresentazione immediata e diretta. L’onere probatorio può dunque essere assolto tramite la dimostrazione di altre circostanze, dalle quali si possa ragionevolmente risalire, per via induttiva, all’esistenza del fatto psichico che si tratta di accertare, secondo un criterio probabilistico».
[…]
«Pur a fronte dell’accertamento dell’errore medico, la corte d’appello ha escluso il diritto al risarcimento dei danni perché non ha ritenuto provato che la paziente, anche se fosse stata correttamente informata, non avrebbe comunque eseguito l’amniocentesi, unico esame che, benché rischioso, le avrebbe consentito di accertare la presenza o meno di alterazioni cromosomiche nel feto, la cui possibilità era stata comunque illustrata alla coppia dal Dott. D.L.; da ciò ha dedotto, valutando il dato insieme ad altre risultanze istruttorie, che non potesse ritenersi provato che la paziente, ove adeguatamente informata, avrebbe effettivamente scelto di interrompere la gravidanza».
«La corte di merito, dunque, ha erroneamente assunto come dato certo sul quale fondare la propria valutazione la consapevole scelta della signora di escludere l’amniocentesi e ne ha dedotto che la volontà della stessa di abortire non era poi così ferma come la stessa affermava, se aveva evitato quell’unico accertamento che le avrebbe dato la certezza delle malformazioni».
«E tuttavia il ragionamento probatorio è manifestamente errato, […] perché dà rilievo assorbente ad un fatto (rectius, ad una omissione) – la scelta della signora M. di non eseguire l’amniocentesi – che a sua volta non si presta in alcun modo ad una ricostruzione inferenziale quantomeno probabile, poiché fondata su una scelta non consapevole in quanto alterata, nel suo processo formativo, dal rassicurante quanto errato esito dell’esame statistico».
«A fronte di una pluralità di fatti certi – la decisione di sottoporsi ad un esame comunque attendibile, diversamente dal tritest, come la traslucenza nucale, al fine di accertare eventuali menomazioni del nascituro, e l’errore diagnostico colpevole – la decisione di non sottoporsi ad amniocentesi, sul piano indiziario, risulta del tutto irrilevante ai fini del ragionamento probatorio, essendo una scelta palesemente alterata dal deficit informativo accertato».
«La sentenza impugnata contiene inoltre un secondo errore di diritto, laddove ha ritenuto non dimostrata l’esistenza di un grave pericolo per la salute psicofisica della donna, ultimo presupposto legittimante, ex art. 6 della L. n. 194 del 1978, con ragionamento ex post».
«Dalla stessa sentenza a Sezioni Unite sopra citata, che indica i canoni da rispettare per compiere questo delicato giudizio, si deduce che la situazione di grave pericolo per la condizione psicofisica della madre va accertata (come situazione di danno potenziale) necessariamente con giudizio ex ante: la prefigurazione della situazione di pericolo va desunta dalle circostanze che esistono al momento in cui la scelta deve essere compiuta, ovvero, in caso di inesatte informazioni che in thesi precludano una scelta libera e consapevole, sulla base della situazione in cui la gestante si sarebbe presumibilmente trovata se correttamente informata. È, in definitiva, un giudizio ipotetico controfattuale ex ante. L’accertamento della situazione di grave pericolo è accertamento in concreto che deve essere compiuto caso per caso (in questo senso anche Cass. n. 653 del 2021, che evidenzia come non sia necessario che la malformazione si sia già prodotta o risulti strumentalmente o clinicamente accertata, affinché se ne possa desumere il grave pericolo di ripercussioni negative per la salute fisica o psichica della donna)».
«Si tratta di un accertamento di pericolosità potenziale, che va effettuato in concreto sulla base delle condizioni della gestante ex ante ai fini dell’accertamento della sussistenza dei presupposti per interrompere la gravidanza oltre i 90 giorni e prima della possibilità di vita autonoma del feto e, ove questa possibilità sia stata conculcata a causa delle inesatte informazioni ricevute, per accertare l’esistenza dei presupposti per la configurabilità del diritto al risarcimento del danno».
«La valutazione della potenziale grave pericolosità, come condizione legittimante l’interruzione di gravidanza e presupposto per il sorgere del diritto al risarcimento del danno, deve essere eseguita con valutazione prognostica ex ante perché è mirata sulla gravità del pericolo cui è esposta la madre a causa dell’inaspettata notizia della infermità dalla quale risulta affetto il feto, e non può essere, invece, parametrata, ex post, alla capacità del soggetto di reagire e di affrontare le difficoltà aprendosi all’accoglienza del bambino ormai nato: sostituire la valutazione ex ante con la valutazione ex post equivale a negare il diritto alla legittima interruzione della gravidanza (e, ove ciò sia reso impossibile dalla mancanza di adeguate informazioni, al risarcimento dei danni) in capo ai soggetti che dimostrano maggiore resilienza, maggiore capacità di affrontare le situazioni in cui involontariamente si vengono a trovare, introducendo una disparità di trattamento che non ha fondamento legale».
Il ricorso di Giovanni e Lucia viene pertanto accolto e la causa viene rinviata dalla corte di cassazione, anche per la liquidazione delle spese del giudizio, alla corte d’appello di Firenze in diversa composizione.