I criteri di determinazione del danno differenziale
A seguito di complicanze derivate da un esame diagnostico, Maria subisce l’asportazione dell’unica tuba rimastale e perde la funzione riproduttiva.
Insieme al proprio marito Giuseppe, promuove davanti al tribunale di Palermo una causa nei confronti dell’Ospedale per ottenere il risarcimento dei rispettivi danni patiti.
Il tribunale accerta la responsabilità dei sanitari che hanno eseguito l’esame diagnostico, anche per assenza del consenso informato della paziente, ed applicando una maggiorazione al grado di invalidità preesistente accertata dal consulente tecnico d’ufficio (pari al 10%) in via equitativa quantifica il danno sofferto nella misura del 22%. Incrementando la somma liquidata a titolo di danno biologico del 10%, giungendo così a riconoscere un risarcimento di 109.000,00 in favore di Maria e di 50.000,00 euro in favore di Giuseppe.
L’entità del risarcimento liquidato viene ridotta dal giudice di appello, sul presupposto che Maria possedeva metà della funzionalità riproduttiva.
La corte d’appello ritiene congrua la percentuale del 10% di danno riconosciuta dal consulente tecnico d’ufficio e ricalcola l’ammontare del risarcimento, attribuendo 48.214,37 euro a Maria (a titolo di danno biologico, morale e da mancato consenso informato) e 20.000,00 a Giuseppe, in quest’ultimo caso considerando il danno quale danno riflesso del danno biologico e morale della moglie.
Contro la sentenza di appello Maria e Giuseppe propongono ricorso alla corte di cassazione, sulla base di tre motivi.
La terza sezione civile della corte decide con ordinanza numero 18442 del 28 giugno 2023.
Il ricorso viene accolto, perché la corte ritiene sbagliati i criteri applicati dalla corte d’appello per determinare l’entità del risarcimento:
«“In tema di liquidazione del danno alla salute, l’apprezzamento delle menomazioni “concorrenti” in capo al danneggiato rispetto al maggior danno causato dall’illecito va compiuto stimando, prima, in punti percentuali l’invalidità complessiva, risultante cioè dalla menomazione preesistente sommata a quella causata dall’illecito e poi quella preesistente all’illecito, convertendo entrambe le percentuali in una somma di denaro […]; procedendo infine a sottrarre dal valore monetario dell’invalidità complessivamente accertata quello corrispondente al grado di invalidità preesistente, fermo restando l’esercizio del potere discrezionale del giudice di liquidare il danno in via equitativa secondo la cd. equità giudiziale correttiva od integrativa, ove lo impongano le circostanze del caso concreto” (in senso conforme, Cass., sez. 6- 3, 29/09/2022, n. 28327)».
«Nello specifico, pur dando atto che la G. possedeva, prima dei fatti per cui è causa, ‹‹metà della funzionalità riproduttiva di una donna fertile in età inferiore ai trenta anni in una situazione di pieno benessere e perfetta salute e con ciclo mestruale regolare›› e che, in esito all’accertamento del c.t.u. era emersa ‹‹la perdita della capacità procreativa per vie naturali e la perdita di chance di una positiva riuscita di qualsivoglia tecnica di procreazione medicalmente assistita (PMA)››, la Corte di merito ha rilevato che i postumi invalidanti subiti dalla ricorrente, “tenuto conto dell’età dell’appellante incidentale alla data dell’evento (41 anni) e della percentuale di danno riconosciutole (10%), secondo le Tabelle milanesi”, ammontavano ad Euro 32.902,18 (Euro 22.082,00 + 49% a titolo di personalizzazione), importo a cui doveva aggiungersi la somma già liquidata in primo grado a titolo di ITT e ITA, nell’importo complessivo di Euro 4.400,00».
«Così argomentando, la Corte ha però disatteso il criterio sopra individuato, che avrebbe comportato la necessità di calcolare il “valore monetario dell’invalidità complessivamente accertata” e di sottrare da tale valore quello corrispondente al grado di invalidità preesistente, fatta salva la possibilità di esercizio del potere discrezionale di applicare “la cd. equità giudiziale correttiva od integrativa, ove lo impongano le circostanze del caso concreto” (Cass. n. 28896/2019 cit.). Non si evince, invero, dalla sentenza impugnata che la Corte territoriale abbia effettuato una quantificazione rapportata alla invalidità complessiva successiva al sinistro (comprensiva delle menomazioni preesistenti e di quelle causate dal sinistro che, in rapporto policrono concorrente, hanno aggravato la precedente condizione della G.) per poi pervenire, tramite sottrazione del valore monetario corrispondente alla patologia originaria, a determinare il “differenziale” risarcitorio spettante alla danneggiata».
«Come spiegato da questa Corte, l’adozione di tale metodo di calcolo si impone, in quanto ‹‹sono le funzioni vitali perdute dalla vittima e le conseguenti privazioni a costituire il danno risarcibile, non il grado di invalidità, che ne è solo la misura convenzionale; tali privazioni (e le connesse sofferenze) progrediscono con intensità geometricamente crescente rispetto al crescere dell’invalidità; la misura convenzionale cresce invece secondo progressione aritmetica. Ciò si riflette nel metodo di liquidazione che, dovendo obbedire al principio di integralità del risarcimento (art. 1223 c.c.), opera necessariamente, sia quando è disciplinato dalla legge, sia quando avvenga coi criteri introdotti dalla giurisprudenza, con modalità tali che il quantum debeatur cresce in modo più che proporzionale rispetto alla gravità dei postumi: ad invalidità doppie corrispondono perciò risarcimenti più che doppi. Tale principio resterebbe vulnerato se, nella stima del danno alla salute patito da persona già invalida, si avesse riguardo solo all’incremento del grado percentuale di invalidità permanente ascrivibile alla condotta del responsabile›› (Cass., n. 28327/2022, cit.)».
«La Corte d’appello, in sede di rinvio, procederà, pertanto, ad una nuova liquidazione del danno, applicando i principi dapprima della causalità materiale (art. 41 c.p.), e poi della causalità giuridica (art. 1223 c.c.) secondo i criteri differenziali sopra esposti, e valutando l’incidenza dell’evento sotto il duplice profilo del danno biologico e del danno da sofferenza morale – come legislativamente riconosciuto, nella sua ontologica autonomia, dal nuovo testo degli artt. 138 e 139 C.d.A».