L’avvocato che non chiama in causa l’assicurazione risponde dei danni
Nel 2011 La società M Spa cita in giudizio l’avvocato A davanti al tribunale di Palermo.
Espone quanto segue: è titolare di una casa di cura erogante servizi sanitari in regime di convenzione col servizio sanitario nazionale; ha stipulato un contratto di assicurazione a copertura, tra l’altro, del rischio derivante dalla responsabilità civile dei medici non dipendenti per danni verificatisi nello svolgimento delle loro mansioni; è stata convenuta in giudizio, unitamente ad un medico, da due coniugi, al fine di ottenere il risarcimento dei danni occorsi al loro figlio in conseguenza della negligente ed imperita condotta dei sanitari all’atto della nascita; nella causa relativa è stata difesa dall’avvocato A, col quale aveva stipulato nel mese di giugno 1997 un un contratto di assistenza e consulenza legale; è stata condannata in grado di appello, in solido con il medico responsabile, a pagare a detti coniugi la somma di 2.143.895,80; ha appreso, all’atto della notifica del precetto, che l’avvocato A aveva omesso di evocare in giudizio la compagnia di assicurazioni con cui aveva stipulato la polizza assicurativa per la responsabilità civile con un massimale pari ad un miliardo di lire. Chiede pertanto che l’avvocato A sia condannato al risarcimento dei danni a titolo di responsabilità professionale per aver omesso di evocare in giudizio la compagnia di assicurazioni e per non aver assolto agli obblighi di informazione, sollecitazione e dissuasione su di lui gravanti; nonché alla restituzione dei compensi percepiti.
L’avvocato A si costituisce in giudizio contestando nel merito la fondatezza delle avverse pretese e in particolare affermando che, in base alle previsioni contrattuali, l’onere di attivazione della polizza assicurativa ricadeva sugli uffici dell’assicurata e che le istruzioni ricevute dalla stessa erano nel senso di non procedere alla chiamata in causa dell’assicurazione: conseguentemente, del danno lamentato deve ritenersi responsabile la sola società M per omessa denuncia.
Il tribunale adito, in parziale accoglimento della domanda, condanna l’avvocato A a pagare alla società la somma di 516.456,90 euro (pari al massimale previsto dal contratto di assicurazione non “attivato” dall’avvocato A) oltre interessi legali dalla domanda e spese di lite; rigetta la domanda di restituzione dei compensi percepiti dal professionista.
La corte d’appello di Palermo, adita in via principale dall’avvocato A e in via incidentale dalla M Spa perché la condanna del professionista non sia limitata al massimale di garanzia, con sentenza emessa nel 2021 rigetta l’appello principale e dichiara inammissibile l’incidentale, compensando le spese.
La corte d’appello ritiene non raggiunta la prova che l’avvocato A avesse adempiuto ai propri obblighi di informazione nei confronti del cliente sollecitandolo ad attivare la garanzia assicurativa; non configurabile la buona fede dell’avvocato A in ragione del lungo rapporto di collaborazione sorto con la casa di cura a seguito della stipula della convenzione che, fin dal 1997, lo aveva investito di tutta la gestione dell’attività stragiudiziale e di quella giudiziale della casa di cura; non necessario che il professionista, ricevuta dal cliente la notifica della citazione introduttiva, ricevesse specifiche istruzioni al fine di chiamare in garanzia la compagnia di assicurazioni, essendo a ciò sufficiente la procura alle liti conferitagli dal presidente della casa di cura. La corte osserva che l’avvocato A è dunque venuto meno agli obblighi di diligenza propri della sua attività professionale, e che, in base ad un giudizio prognostico, proprio del più probabile che non, ove il legale, gravato di una obbligazione di mezzi, fosse stato diligente nel chiamare in giudizio la compagnia di assicurazioni, la società M avrebbe potuto giovarsi della copertura assicurativa quanto meno nei limiti del massimale di polizza.
Avverso la sentenza l’avvocato A propone ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi. La società M non svolge difese.
Sul ricorso viene chiamata a pronunciarsi la terza sezione civile della corte di cassazione, che decide con ordinanza 13 settembre 2023 n. 26470.
Per la corte il ricorso non è fondato:
«Dirimente, rispetto alla qualificazione della fattispecie, è l’avvenuta stipula, tra il legale e la casa di cura assistita, di una convenzione in data 17/6/1997, in base alla quale il legale era incaricato di gestire tutta l’attività stragiudiziale, di consulenza e assistenza e quella giudiziale in cui la casa di cura sarebbe stata coinvolta. Che la causa oggetto del presente contenzioso rientrasse nell’oggetto della convenzione è prova la dichiarazione dello stesso legale, trasfusa nella relazione redatta sullo stato e andamento dei procedimenti giudiziari affidatigli, prodotta in giudizio dalla casa di cura, nella quale è citato anche il giudizio dal quale è scaturito il presente contenzioso. Come correttamente ritenuto dalla impugnata sentenza, a fronte del rapporto continuativo a titolo oneroso intercorso tra la clinica ed il professionista, cui era stata affidata anche la gestione del contenzioso in materia di responsabilità medico- sanitaria, appare del tutto inverosimile sostenere che fosse la cliente e non il professionista, come sostenuto dal ricorrente, a dettare la condotta processuale da seguire nei giudizi affidati al legale e, men che mai di valutare l’opportunità di evocare in giudizio la compagnia di assicurazioni. Ne consegue che, ricevuta dal cliente la notifica della citazione introduttiva del giudizio, il legale all’atto della predisposizione della memoria di costituzione, non necessitava di alcuna istruzione per chiamare in garanzia la compagnia di assicurazioni essendo a ciò sufficiente la procura alle liti conferitagli in base al principio secondo cui “al difensore è attribuito il potere di esperire tutte le iniziative atte a tutelare l’interesse del proprio assistito, ivi inclusa la chiamata del terzo in garanzia impropria (Cass., S.U. n. 4909 del 14/3/2016; Cass., 3, n. 20898 del 22/8/2018); peraltro la sentenza è corretta anche nella parte in cui formula una ipotesi subordinata, secondo cui, anche a voler ritenere che non fosse onere del legale denunciare all’assicurazione la pendenza della lite, il professionista era comunque tenuto a fornire la prova di aver comunicato e informato la casa di cura circa la necessità di chiamare in giudizio la compagnia sulla base del dovere di diligenza quale configurato dalla giurisprudenza di questa Corte. Infatti nell’ambito del dovere di diligenza rientrano i doveri di informazione, di sollecitazione e di dissuasione ai quali il professionista deve adempiere, così all’atto dell’assunzione dell’incarico come nel corso del suo svolgimento, prospettando innanzitutto al cliente le questioni riscontrate ostative al raggiungimento del risultato e/o produttive di un rischio di conseguenze negative o dannose, invitandolo a comunicare o a fornire elementi utili alla soluzione positiva delle questioni (ex multiis, Cass., 2, n. 16023 del 14/11/2002; Cass., 2, n. 14597 del 30/7/2004; Cass., 3, n. 8494 del 6/5/2020); spetta al professionista, se vi è contestazione sui limiti dell’incarico conferito, l’onere di dimostrare i termini dell’accordo raggiunto con il cliente e l’attività consultiva svolta in favore dello stesso, onere al quale il legale, nel caso di specie, non ha correttamente adempiuto; infine corretta e conforme alla giurisprudenza di questa Corte in tema di diligenza professionale media esigibile dal professionista è la impugnata sentenza nella parte in cui afferma che la condotta omissiva del legale deve essere valutata alla luce di un giudizio controfattuale secondo cui, senza l’omissione, il risultato sarebbe stato conseguito sulla base di criteri probabilistici: “La responsabilità professionale dell’avvocato, la cui obbligazione è di mezzi e non di risultato, presuppone la violazione del dovere di diligenza, per il quale trova applicazione, in luogo del criterio generale della diligenza del buon padre di famiglia, quello della diligenza professionale media esigibile, ai sensi dell’art. 1176, comma 2, c.c., da commisurare alla natura dell’attività esercitata. Inoltre, non potendo il professionista garantire l’esito comunque favorevole auspicato dal cliente (nella specie, del giudizio di appello), il danno derivante da eventuali sue omissioni […] in tanto è ravvisabile, in quanto, sulla base di criteri necessariamente probabilistici, si accerti che, senza quell’omissione, il risultato sarebbe stato conseguito, secondo un’indagine istituzionalmente riservata al giudice di merito, non censurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata ed immune da vizi logici e giuridici” (Cass., 2, n. 6967 del 27/3/2006; Cass., 3, n. 25234 del 14/12/2010)».
Ne consegue il rigetto del ricorso.