Danno da premorienza e danno da perdita di chance di sopravvivenza possono coesistere
Carla ricorre al tribunale di Livorno per chiedere l’esperimento di una consulenza tecnica preventiva per l’accertamento del danno patito a seguito di errore diagnostico di patologia tumorale, con conseguente omissione terapeutica, correlati ad un intervento di quadrectomia con biopsia del linfonodo sentinella e successivo svuotamento ascellare per carcinoma duttale infiltrante G3, con determinazione recettoriale inizialmente refertata come negativa. Riferisce che l’intervento non è stato risolutivo e negli anni seguenti la malattia è recidivata, con ripetizioni metastatiche a livello polmonare e osseo, che le hanno consentito di deambulare solo con l’ausilio due antibrachiali. Sostiene che l’errore diagnostico, addebitato ai sanitari dell’Azienda Sanitaria Locale, è stato commesso nell’esame di determinazione dell’assetto recettoriale sul pezzo operatorio effettuato nel 2006. L’errore è stato svelato nel 2010, quando è stata eseguita una revisione dei vetrini per la verifica dell’assetto recettoriale dello stesso pezzo operatorio, grazie alla quale è stato constatato che il tessuto tumorale era fortemente ricettivo per entrambi i recettori. Secondo Carla quell’errore iniziale ha determinato la mancata prescrizione della terapia ormonale, che avrebbe dovuto essere intrapresa nel 2007, al termine della chemioterapia, e che invece è stata iniziata soltanto nel 2010, quando ormai la malattia era evoluta al quarto stadio, con metastasi ossea e polmonare, dall’iniziale stadio 2B in cui ella si trovava al momento della originaria diagnosi. Tale errore diagnostico secondo Carla ha determinato la riduzione delle sue probabilità di sopravvivenza, in particolare a 10 anni.
Viene nominato un consulente tecnico d’ufficio il quale afferma che la terapia ormonale sarebbe stata in grado di ritardare la comparsa di recidive della malattia. La mancata instaurazione di tale terapia ha anticipato, ma non determinato, la recidiva stessa. Al momento della prima diagnosi, errata, si sarebbe dovuto compiere un approfondimento citogenetico, instaurando una terapia a base di Trastuzumab (farmaco Hereceptin), dimostratasi efficace nel migliorare considerevolmente il tasso di sopravvivenza e l’intervallo libero dalla malattia, riducendo, su base statistica, il rischio di recidiva, e, in minor misura, il rischio di decesso, indipendentemente dalla instaurazione di una terapia ormonale. Il consulente, avvalendosi dell’analisi di un ausiliario oncologo, conclude che, più probabilmente che non, la combinata instaurazione della terapia ormonale con quella di Trastuzumab avrebbe potuto prevenire la recidiva e la progressione della patologia tumorale. Stima i postumi permanenti riconducibili a tale aggravamento nella misura del 50% rispetto allo stato anteriore.
Carla promuove allora il giudizio di merito nei confronti dell’ASL, alla quale imputa sia il danno differenziale che il rischio di sovramortalità, e chiede il risarcimento dei danni relativi.
L’ASL si costituisce in giudizio controdeducendo: che la relazione peritale ha indicato una condotta omissiva, causalmente colposa e rilevante, diversa da quella della mancata terapia ormonale, individuata nella mancata somministrazione del farmaco Trastuzumab; che il consulente d’ufficio ha frainteso, con errori metodologici, i dati epidemiologici analizzati dall’ausiliario oncologo, non tenendo in debita considerazione, ai fini delle probabilità di recidiva, lo stadio iniziale della malattia di Carla, e sommando valori di riduzione del rischio riferiti sia all’uso del suddetto farmaco sia alla terapia ormonale, in assenza di studi specifici sul punto. Sottolinea, quindi, che si è trattato non tanto di danno da perdita di “chance” quanto piuttosto della possibilità di prolungare l’intervallo libero da malattia, beneficiando di una migliore qualità della vita. Allega, infine, di aver già corrisposto a Carla una somma di circa 23 mila euro.
Il tribunale di Livorno accoglie la domanda, osservando che: l’errore diagnostico è stato dimostrato ed è del resto pacifico; la mancata somministrazione della ormonoterapia e del Trastuzumab ha condizionato negativamente l’evoluzione della malattia neoplastica, posto che, secondo la letteratura scientifica, la percentuale dei soggetti con malattia nello stesso stadio che si sono avvalsi della terapia omessa è superiore alla percentuale di pazienti che avrebbero presentato comunque una recidiva nonostante la somministrazione del trattamento; il danno differenziale è da quantificare, secondo le condivise analisi peritali, in misura pari al 50% quanto all’invalidità permanente, tenuto pure conto di quanto già risarcito transattivamente; va parimenti riconosciuto il danno da perdita di “chance”, liquidato equitativamente.
L’ASL propone appello davanti alla corte d’appello di Firenze. Resistono gli eredi di Carla, deceduta medio tempore.
Il giudice d’appello respinge il gravame osservando che: gli oneri di allegazione non possono ritenersi cristallizzati con riferimento a quanto già argomentato in sede di accertamento tecnico preventivo; l’incidenza della mancata somministrazione farmacologica e della mancata terapia ormonale è stata correttamente valutata sia in termini di peggioramento della qualità della vita (posto che si sarebbe potuta evitare una chemioterapia altamente invalidante) sia in termini di perdita di “chance”, ovvero di danno da minore durata della vita, oltre che dalla sua peggiore qualità. Ad avviso della corte, pertanto, va confermata la statuizione di accoglimento della domanda e altresì quella, pure intervenuta, di personalizzazione del danno biologico, atteso quanto emerso in termini di sconvolgimento dell’esistenza di Carla, già compromessa dalla scoperta malattia, con perdita di fiducia circa la possibilità di recuperare nel tempo le condizioni pregresse con mutamento definitivo integrale delle proprie condizioni di vita.
Contro la sentenza di appello l’ASL propone ricorso per cassazione, sul quale la terza sezione civile della corte si pronuncia con sentenza n. 26851 del 19 settembre 2023.
Gli otto motivi di ricorso, esaminati congiuntamente per la loro strettissima connessione, sono ritenuti dalla corte parzialmente fondati.
La sentenza è un piccolo trattato sui danni da responsabilità medica. La parte più interessante riguarda la possibilità di cumulo del risarcimento per danni da premorienza con quello da perdita di chance di sopravvivenza:
«Vanno […] distinte tre ipotesi:
1) la vittima è già deceduta al momento dell’introduzione del giudizio da parte degli eredi;
2) la vittima è ancora vivente al momento della decisione;
3) la vittima, vivente al momento dell’introduzione della lite, muore in pendenza della decisione.
1) La vittima è già deceduta al momento dell’introduzione del giudizio da parte degli eredi.
In questo caso non è concepibile, né logicamente né giuridicamente, un “danno da perdita anticipata della vita” trasmissibile iure successionis (Cass., 04/03/2004, n. 4400, Cass. 5641 del 2018, cit. e Cass., Sez. U., n. 15350 del 2015, cit.), non essendo predicabile, nell’attuale sistema della responsabilità civile, la risarcibilità del danno tanatologico.
Esemplificando, causare la morte d’un ottantenne sano, che ha dinanzi a sé cinque anni di vita sperata, non diverge, ontologicamente, dal causare la morte d’un ventenne malato che, se correttamente curato, avrebbe avuto dinanzi a sé ancora cinque anni di vita.
L’unica differenza tra le due ipotesi sta nel fatto che, nel primo caso, la vittima muore prima del tempo che gli assegnava la statistica demografica, mentre, nel secondo caso, muore prima del tempo che gli assegnava la statistica e la scienza clinica: ma tale differenza non consente di pervenire ad una distinzione “morfologica” tra le due vicende, così da affermare la risarcibilità soltanto della seconda ipotesi di danno.
È possibile, dunque, discorrere (risarcendolo) di “danno da perdita anticipata della vita”, con riferimento al diritto iure proprio degli eredi, solo definendolo il pregiudizio da minor tempo vissuto ovvero da valore biologico relazionale residuo di cui non si è fruito, correlato al periodo di tempo effettivamente vissuto, secondo i parametri di cui si dirà […].
In conclusione, nell’ipotesi di un paziente che, al momento dell’introduzione della lite, sia già deceduto, sono, di regola, alternativamente concepibili e risarcibili jure hereditario, se allegati e provati, i danni conseguenti:
a) alla condotta del medico che abbia causato la perdita anticipata della vita del paziente (determinata nell’an e nel quantum), come danno biologico differenziale (peggiore qualità della vita effettivamente vissuta), considerato nella sua oggettività, e come danno morale da lucida consapevolezza della anticipazione della propria morte, eventualmente predicabile soltanto a far data dall’altrettanto eventuale acquisizione di tale consapevolezza in vita;
b) alla condotta del medico che abbia causato la perdita della possibilità di vivere più a lungo (non determinata né nell’an né nel quantum), come danno da perdita di chances di sopravvivenza.
In nessun caso sarà risarcibile iure haereditario, e tanto meno cumulabile con i pregiudizi di cui sopra, un danno da “perdita anticipata della vita” con riferimento al periodo di vita non vissuta dal paziente.
2) La vittima è ancora vivente al momento della liquidazione del danno.
I danni liquidabili non divergono, morfologicamente, da quelle indicate sub 1) se non per il fatto che non saranno gli eredi, ma il paziente stesso, ancora in vita, ad invocarne il risarcimento, salvo il diverso profilo del danno morale:
a) se vi è incertezza sulle conseguenze quoad vitam dell’errore medico, il paziente può pretendere il risarcimento del danno da perdita delle chance di sopravvivenza, ricorrendone i consueti presupposti (serietà, apprezzabilità, concretezza, riferibilità eziologica certa della perdita di quella “chance” alla condotta in rilievo);
b) se invece è accertato, secondo i comuni criteri eziologici, che l’errore medico anticiperà la morte del paziente, sarà risarcibile il danno biologico differenziale (peggiore qualità della vita) e il danno morale da futura morte anticipata, in questo caso sicuramente predicabile (essendo il paziente ancora in vita) a far data dalla acquisizione della relativa consapevolezza.
3) La vittima, vivente al momento dell’introduzione del giudizio, è deceduta al momento della liquidazione del risarcimento:
a) se è certo che l’errore medico abbia causato la morte anticipata del paziente, si ricadrà nell’ipotesi di cui sopra, sub 1.a): il paziente può avere patito (e trasmesso agli eredi) un danno biologico (differenziale), e un danno morale da lucida consapevolezza della morte imminente, ma non un danno da “perdita anticipata della vita”, risarcibile soltanto, nel perimetro sopra chiarito, iure proprio agli eredi, che potranno altresì proporre la relativa domanda in corso di causa, per ragioni di economia di giudizi (in argomento, v. anche Cass., Sez. U., 12/12/2014, n. 26242, e Cass., Sez. U., 15/06/2015, n. 12310);
b) se è incerto che l’errore medico abbia causato la morte del paziente, il paziente può avere patito, in relazione al tempo di vita vissuto (e trasmesso agli eredi), un danno da perdita delle chance di sopravvivenza, ma non un danno da “perdita anticipata della vita”.
[…] Va affermato, in via generale, il principio secondo il quale, quando sia certo che la condotta del medico abbia provocato (o provocherà) la morte anticipata del paziente, la morte stessa diviene, di regola, evento assorbente di qualsiasi considerazione sulla risarcibilità di chance future, salvo quanto si dirà […].
Nell’esigenza di pervenire ad una terminologia chiara e condivisa, va pertanto chiarito che:
a) vivere in modo peggiore, sul piano dinamico-relazionale, la propria malattia negli ultimi tempi della propria vita a causa di diagnosi e/o cure tardive da errore medico, rappresenta un danno biologico (differenziale);
b) nel contempo, trascorrere quegli ultimi tempi della propria vita con l’acquisita consapevolezza delle conseguenze sulla (ridotta) durata della vita stessa a causa di diagnosi e/o cure tardive da errore medico, costituisce un danno morale, inteso come sofferenza interiore e come privazione della capacità di battersi ancora contro il male;
c) perdere la possibilità, seria apprezzabile e concreta, ma incerta nell’an e nel quantum, di vivere più a lungo a causa di diagnosi e/o cure tardive da errore medico, è un danno da perdita di chance;
d) la perdita anticipata della vita per un tempo determinato a causa di un errore medico in relazione al segmento di vita non vissuta, è un danno risarcibile non per la vittima, ma per i suoi congiunti, nei termini prima chiariti, quale che sia la durata del “segmento” di esistenza cui la vittima ha dovuto rinunciare.
[…] Traendo le fila del discorso svolto sin qui, deve concludersi che non vi è spazio, in linea generale, per sovrapposizioni concettuali tra istituti speculari (chance e perdita anticipata della vita), salvo che si chiariscano e si accertino, motivando rispetto alla concreta fattispecie, le differenze come sinora ricostruite. Ne consegue, pertanto, che:
a) nel caso di perdita anticipata della vita (una vita che sarebbe comunque stata perduta per effetto della malattia) sarà risarcibile il danno biologico differenziale (nelle sue due componenti, morale e relazionale: art. 138 nuovo testo c.a.p.), sulla base del criterio causale del “più probabile che non”: l’evento morte della paziente, verificatasi in data X, si sarebbe verificata, in assenza dell’errore medico, dopo il tempo (certo) X+Y, dove Y rappresenta lo spazio temporale di vita non vissuta: il risarcimento sarà riconosciuto, con riferimento al tempo di vita effettivamente vissuto – e non a quello non vissuto, che rappresenterebbe un risarcimento del danno da morte (riconoscibile, viceversa, iure proprio, ai congiunti) stante l’irrisarcibilità del danno tanatologico – in tutti i suoi aspetti, morali e dinamico-relazionali, intesi tanto sotto il profilo della (eventuale) consapevolezza che una tempestiva diagnosi e una corretta terapia avrebbero consentito un prolungamento (temporalmente determinabile) della vita che va a spegnersi, quanto sotto quello della invalidità permanente “differenziale” (la differenza, cioè, tra le condizioni di malattia effettivamente sopportate e quelle, migliori, che sarebbero state consentite da una tempestiva diagnosi e da una corretta terapia);
b) il danno da perdita di chance di sopravvivenza sarà invece risarcito, equitativamente, una volta che, da un lato, vi sia incertezza sull’efficienza causale della condotta illecita quoad mortem, ma, al contempo, vi sia certezza eziologica che la condotta colpevole abbia cagionato la perdita della possibilità di vivere più a lungo (possibilità non concretamente accertabile nel quantum né predicabile quale certezza nell’an, a differenza che nell’ipotesi sub a). La valutazione equitativa di tale risarcimento non sarà, dunque, parametrabile, sia pur con le eventuali decurtazioni, né ai valori tabellari previsti per la perdita della vita, né a quelli del danno biologico temporaneo;
c) il danno da perdita anticipata della vita e il danno da perdita di chance di sopravvivenza, di regola, non saranno né sovrapponibili né congiuntamente risarcibili, pur potendo eccezionalmente costituire oggetto di separata ed autonoma valutazione qualora l’accertamento si sia concluso nel senso dell’esistenza di un danno tanto da perdita anticipata della vita, quanto dalla possibilità di vivere ancora più a lungo, qualora questa possibilità non sia quantificabile temporalmente, ma risulti seria, concreta e apprezzabile, e sempre che entrambi i danni siano riconducibili eziologicamente (secondo i criteri rispettivamente precisati) alla condotta colpevole dell’agente.
[…] Ecco dunque che, fermo il generale principio, come sopra espresso, della generale irrisarcibilità dell’ulteriore danno da perdita di chance in presenza di un danno da perdita anticipata della vita, in via eccezionale possono darsi ipotesi in cui il Giudice di merito ritenga, anche sulla base della prova scientifica acquisita, che, oltre al tempo determinato di vita anticipatamente perduta, esista, in relazione alle specifiche circostanze del caso concreto, la seria, concreta e apprezzabile possibilità (sulla base dell’eziologica certezza della sua riconducibilità all’errore medico) che, oltre quel tempo, il paziente avrebbe potuto sopravvivere ancora più a lungo. In tal caso, sempre che e soltanto se tale possibilità non si risolva in una mera speranza, ovvero si collochi in una dimensione di assoluta incertezza eventistica, che non attinga la soglia di quella seria, concreta, apprezzabile possibilità (come lascerebbe intendere, in via di presunzione semplice, l’avvenuta morte, benché anticipata, del paziente), tale ulteriore e diversa voce di danno risulterà concretamente e limitatamente risarcibile, in via equitativa, al di là e a prescindere dai parametri (sia pur diminuiti percentualmente) relativi al danno biologico e al quello da premorienza».