Responsabilità medica e consenso informato
Elisa agisce davanti al tribunale di Lecce contro due medici, il dottor A e il dottor B, chiedendo che siano condannati in solido al risarcimento dei danni da lei subiti a causa della negligenza e imperizia nella cura della patologia dermatologica dalla quale era stata colpita.
A sostegno della domanda espone di essersi sottoposta ad un intervento chirurgico ambulatoriale, eseguito dal dottor A, per l’asportazione di una cisti sebacea del cuoio capelluto, senza che in quella circostanza il medico la avvisasse della necessità di compiere un esame istologico dei tessuti. Pochi mesi dopo, verificatasi una recidiva, si era rivolta al dottor B, il quale l’aveva sottoposta ad una nuova analoga asportazione, anche questa volta senza indicazione della necessità di un esame istologico dei tessuti, nonostante in tale occasione vi fosse stato un abbondante sanguinamento. Passato qualche anno, erano comparse ulteriori cisti nel medesimo punto. A quel punto Elisa si era rivolta ad un ospedale, dove le era stata diagnosticata una neoplasia (istocitoma recidivante di Darrier-Ferraud), e all’Istituto tumori di Milano, dove era stata compiuta la diagnosi di dermatofibrosarcoma protuberans. Si era dovuto pertanto sottoporre ad ulteriori cure, con demolizione di ampia sezione del cuoio capelluto e relativa ricostruzione.
Sulla base di tali affermazioni, Elisa chiede la condanna dei dottori A e B al risarcimento dei danni conseguenti all’omesso espletamento di un esame istologico dei tessuti, con evidente ritardo nella diagnosi della malattia tumorale dalla quale era stata colpita.
Si costituiisce in giudizio il dottor A, il quale, nel chiedere il rigetto della domanda, chiede e ottiene di chiamare in causa la società Alfa, sua assicuratrice, per essere manlevato in caso di condanna.
Il dottor B si costituisce in giudizio chiese anch’egli il rigetto della domanda, specificando di aver consigliato alla paziente, in occasione del secondo intervento di rimozione, di far eseguire un esame istologico ed una TAC del cranio.
La società Alfa si costituisce ed eccepisce la non operatività della polizza, l’esclusione della garanzia e la prescrizione del diritto.
Il tribunale, dopo aver disposto l’espletamento di due consulenze tecniche d’ufficio, affidate a due diversi professionisti, accoglie parzialmente la domanda nei confronti del dottor B, che condanna al pagamento della somma di Euro 16.571,80, con il carico delle spese di lite; rigetta le ulteriori domande; condanno Elisa al pagamento delle spese in favore del dottor S e condannoa quest’ultimo alle spese in favore della società Alfa.
La pronuncia viene impugnata in via principale dagli eredi del defunto dottor B e in via incidentale da Elisa.
La corte d’appello di Lecce accoglie in parte entrambe le impugnazioni. Accoglie la domanda di Elisa solo in relazione alla violazione del principio del consenso informato, condannando tanto il dottor A quanto gli eredi del dottor a corrisponderle la somma di duemila euro ciascuno; conferma, nel resto, la sentenza di primo grado.
La corte ritiene di non poter condividere le conclusioni raggiunte dai consulenti tecnici d’ufficio. Parte dall’affermazione secondo cui una cisti sebacea è ben differente rispetto al dermatofibrosarcoma, il quale interessa i tessuti in profondità e impone una completa escissione con margini indenni di almeno tre centimetri. Non ritiene pertanto verosimile che una tale «evidentissima» diversità possa essere sfuggita a due medici, uno dei quali (il dottor A) specialista in dermatologia. Era quindi da ritenere «altamente probabile» che il primo medico, avendo rilevato la presenza di una cisti sebacea, abbia ritenuto superfluo far eseguire un esame istologico, non necessario in presenza di quest’ultima patologia. Quanto al dottor B, intervenuto successivamente, la sostiene che egli, trovandosi in presenza di una recidiva della cisti sebacea «già precedentemente diagnosticata da uno specialista dermatologo», doveva aver ritenuto non necessario procedere ad un ulteriore approfondimento bioptico, benché egli stesso avesse affermato, ma non provato, di averne consigliato l’esecuzione alla paziente.
In definitiva, quindi, il decorso post-operatorio di entrambi gli interventi non forniva elementi sufficienti per affermare che la grave patologia successivamente accertata fosse già presente o concomitante nel momento dell’escissione di quelle che apparivano come due cisti sebacee. In considerazione, inoltre, del «notevole lasso di tempo» intercorso tra i due interventi in questione e l’individuazione della patologia tumorale, la corte conclude nel senso che, «con elevato grado di probabilità», il dermatofibrosarcoma fosse sopravvenuto. Il che conduce al rigetto della domanda risarcitoria proposta da Elisa.
La corte d’appello accoglie invece l’ulteriore e diversa domanda proposta da Elisa in relazione alla lesione del diritto all’autodeterminazione, ritenendo che la mancata acquisizione del consenso informato al trattamento sanitario, lamentata da Elisa «e non contestata», ha leso il diritto della paziente «a ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui veniva sottoposta, con particolare riguardo alla natura recidivante della formazione asportata, così da consentirle di valutare più approfondite diagnostiche o eventuali terapie alternative».
Contro la sentenza di appello Elisa propone ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi.
Resistono con separati controricorsi il dottor A e gli eredi del dottor B. Il primo propone anche ricorso incidentale affidato a due motivi.
Il ricorso viene deciso dalla terza sezione civile della corte di cassazione con ordinanza numero 30032 del 30 ottobre 2023.
Ragioni di logica e di economia processuale inducono la corte ad esaminare il ricorso principale cominciando dal secondo motivo, che viene ritenuto fondato:
«dalla (corretta) premessa dell’evidente diversità tra le due patologie la Corte territoriale è pervenuta alla conclusione secondo cui, in sostanza, un professionista di medie capacità non avrebbe mai potuto confonderle. Ma è palese che si tratta di un sillogismo viziato, perché dà per dimostrato esattamente ciò che, al contrario, doveva essere dimostrato. La domanda risarcitoria della E., infatti, si fondava proprio sulla presunta inadeguatezza del comportamento tenuto dai due medici in relazione al ripetersi della patologia a breve distanza di tempo. Poiché lo svolgersi cronologico degli eventi non è in discussione, la Corte d’appello avrebbe dovuto chiedersi se, a fronte di una simile evoluzione, potesse o meno ritenersi corretto l’operato dei due medici; ma tale esame non poteva essere condotto partendo da una presunzione, appunto, errata, perché l’errore professionale ipotizzato dalla paziente consisteva esattamente in questo, e cioè nel non aver correttamente individuato la patologia».
«Simile motivazione, pur in apparenza sussistente, è errata e irredimibilmente viziata da illogicità manifesta, e finisce col rendere altrettanto irredimibilmente non motivato anche il dissenso rispetto alle conclusioni alle quali, con ben più fondate argomentazioni logico-scientifiche, erano giunti i consulenti tecnici. Se è indiscutibile, infatti, che il giudice di merito, quale peritus peritorum, ben può dissentire dalle conclusioni del c.t.u. e giungere ad una decisione di segno contrario, magari anche condividendo le conclusioni del c.t. di parte, è altrettanto indiscutibile che a tale risultato può pervenire solo fornendo un’adeguata motivazione. E tale non è quella resa nel caso in esame, nella quale, in fin dei conti, il dissenso rispetto ai due consulenti d’ufficio risulta fondato su di un uso errato di una (in realtà inesistente) prova presuntiva, di talché la conclusione si risolve in una immotivata petizione di principio».
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«Il giudice di rinvio, pertanto, dovrà provvedere al riesame del merito della vicenda, alla luce delle risultanze delle c.t.u. esistenti in atti (ferma la facoltà di riconvocare ad eventuali ed ulteriori chiarimenti i c.t.u. a suo tempo nominati), partendo dal presupposto che era ragionevolmente più difficile sospettare una patologia tumorale per il Dott. A. – che per primo eseguì l’escissione chirurgica – piuttosto che per il Dott. D.S., che fu chiamato ad intervenire in un secondo tempo, in presenza di una recidiva. Fermo restando, ovviamente, che la decisione della Corte d’appello non patisce vincoli, posto che il rigetto della domanda risarcitoria nei confronti del Dott. A. pronunciato dal Tribunale era stato impugnato dalla E. in appello, per cui il giudicato sul punto non si è formato».
L’accoglimento di tale motivo di ricorso determina l’assorbimento degli altri.
La corte ritiene fondati anche i due motivi del ricorso incidentale:
«Com’è noto, il problema del diritto al consenso informato e delle conseguenze giuridiche della sua violazione, come anche quello della sua diversità rispetto al diritto ad ottenere un trattamento terapeutico corretto, ha formato oggetto di numerose pronunce».
«La giurisprudenza di questa Corte ha già da tempo affermato che in tema di responsabilità professionale del medico, l’inadempimento dell’obbligo di informazione sussistente nei confronti del paziente può assumere rilievo a fini risarcitori, anche in assenza di un danno alla salute o in presenza di un danno alla salute non ricollegabile alla lesione del diritto all’informazione, tutte le volte in cui siano configurabili, a carico del paziente, conseguenze pregiudizievoli di carattere non patrimoniale di apprezzabile gravità derivanti dalla violazione del diritto fondamentale all’autodeterminazione in se stesso considerato, sempre che tale danno superi la soglia minima di tollerabilità imposta dai doveri di solidarietà sociale e che non sia futile, ossia consistente in meri disagi o fastidi (sentenza 9 febbraio 2010, n. 2847, ribadita dalla più recente ordinanza 22 agosto 2018, n. 20885)».
«È stato parimenti affermato che le conseguenze dannose che derivino, secondo un nesso di regolarità causale, dalla lesione del diritto all’autodeterminazione, verificatasi in seguito ad un atto terapeutico eseguito senza la preventiva informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli, e dunque senza un consenso legittimamente prestato, devono essere debitamente allegate dal paziente, sul quale grava l’onere di provare il fatto positivo del rifiuto che egli avrebbe opposto al medico, tenuto conto che il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla sua scelta soggettiva; d’altra parte, la manifestazione del consenso del paziente alla prestazione sanitaria costituisce esercizio del diritto fondamentale all’autodeterminazione in ordine al trattamento medico propostogli (sentenza 11 novembre 2019, n. 28985). La violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni: un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, su cui grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all’intervento e di subirne le conseguenze invalidanti; nonché un danno da lesione del diritto all’autodeterminazione, rinvenibile quando, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (ed, in tale ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute (così la sentenza in ultimo citata)».
Ancor più di recente, poi, l’ordinanza 12 giugno 2023, n. 16633, ha ricapitolato in modo organico i principi che regolano la complessa materia e ha ribadito – ai fini che specificamente interessano in questa sede – che, se ricorre il consenso presunto (ossia può presumersi che, se correttamente informato, il paziente avrebbe comunque prestato il suo consenso) e non vi è alcun danno derivante dall’intervento, non è dovuto alcun risarcimento; se, invece, ricorrono il consenso presunto e il danno iatrogeno, ma non la condotta inadempiente o colposa del medico nell’esecuzione della prestazione sanitaria (cioè, l’intervento è stato correttamente eseguito), il danno da lesione del diritto, costituzionalmente tutelato, all’autodeterminazione è risarcibile qualora il paziente alleghi e provi che dalla omessa, inadeguata o insufficiente informazione gli siano comunque derivate conseguenze dannose, di natura non patrimoniale, diverse dal danno da lesione del diritto alla salute, in termini di sofferenza soggettiva e contrazione della libertà di disporre di se stesso, psichicamente e fisicamente».
«Questa giurisprudenza, peraltro in larga misura già formatasi quando la Corte d’appello ha pronunciato la sentenza qui impugnata, non è stata correttamente applicata nel caso specifico».
«Ed invero dal contenuto del ricorso, che ricostruisce la vicenda giudiziaria esponendo come prese avvio la domanda nel giudizio di primo grado, non risulta che la E. abbia lamentato una vera e propria lesione del diritto all’autodeterminazione. Per quanto risulta dal ricorso, infatti, la stessa ricorrente principale osserva che nessuno dei due medici curanti aveva chiesto alla paziente, prima del trattamento chirurgico, il di lei consenso informato; anzi, nessuno l’aveva avvertita dell’opportunità di un previo esame istologico di un frammento della neoformazione».
«In altri termini, dalla sentenza in esame e dal ricorso emerge come la domanda risarcitoria non fosse rivolta a censurare l’operato tecnico dei due professionisti; il che significa che la E. non risulta aver mai sostenuto che l’escissione delle formazioni cutanee sia stata eseguita in maniera scorretta. La doglianza si colloca, per così dire, in un momento successivo, perché la paziente contesta che alla duplice escissione chirurgica non siano state fatte seguire le dovute indagini istologiche e le conseguenti indicazioni terapeutiche. Non viene neppure prospettato, però, che, in presenza di un’adeguata informazione, ella avrebbe rifiutato di sottoporsi ai due interventi; in considerazione della situazione, anzi, il consenso della paziente all’intervento è da ritenere presunto, anche perché non è dato sapere quale altra strada si sarebbe potuta intraprendere che non fosse l’asportazione».
«Da tali considerazioni si trae la conclusione che non è corretta l’affermazione della Corte d’appello secondo cui “la mancata acquisizione del consenso informato al trattamento sanitario” avrebbe leso il diritto della E. “a ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui veniva sottoposta, con particolare riguardo alla natura recidivante della formazione asportata, così da consentirle di valutare più approfondite diagnostiche o eventuali terapie alternative”. Nel senso che l’errore in questione, qualora fosse riconosciuto, costituirebbe non una lesione del diritto all’autodeterminazione, quanto piuttosto una forma di non corretta esecuzione della prestazione terapeutica».
«Toccherà dunque al giudice di rinvio, alla luce del riesame dell’intera vicenda e degli orientamenti di questa Corte, stabilire se vi sia stata o meno una lesione del diritto del paziente all’autodeterminazione, nei termini fissati dalla suindicata giurisprudenza».