L’amministrazione di sostegno non può avere funzione esplorativa
Stabilisce l’articolo 404 del codice civile: «La persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare del luogo in cui questa ha la residenza o il domicilio».
Il quarto comma dell’articolo 411 del medesimo codice stabilisce: Il giudice tutelare, nel provvedimento con il quale nomina l’amministratore di sostegno, o successivamente, può disporre che determinati effetti, limitazioni o decadenze, previsti da disposizioni di legge per l’interdetto o l’inabilitato, si estendano al beneficiario dell’amministrazione di sostegno».
Francesco ricorre a un tribunale veneto, ufficio del giudice tutelare, per l’apertura di una procedura di amministrazione di sostegno a beneficio del proprio padre Arturo, il quale si oppone deducendo la sua piena integrità psico-fisica, provata con certificati medici, negando di aver posto in essere disposizioni patrimoniali inadeguate, ed evidenziando, al contrario, di essere perfettamente in grado di gestire le proprie finanze e risparmi.
Il giudice tutelare ritiene necessaria la nomina provvisoria di un amministratore di sostegno per ricostruire il patrimonio di Arturo, la sua modalità di gestione, il tutto per proteggerlo, almeno in via contingente, considerata la preoccupazione per una compravendita formalizzata in termini non proficui.
Arturo impugna la decisione davanti alla corte d’appello di Venezia, ribadendo di essere perfettamente capace di badare ai suoi interessi personali e patrimoniali e di doversi preservare dagli effetti economicamente pregiudizievoli di molteplici comportamenti tenuti dal figlio Francesco; contesta la scelta di quest’ultimo, stigmatizzata come strumentale, volta a screditare il genitore e ad ottenerne il “controllo” per i suoi interessi; lamenta che la misura assunta dal giudice tutelare avrebbe un’illegittima connotazione esplorativa, in quanto diretta solo ad indagare pregresse condotte di rilievo patrimoniale, senza un’attualità di pericolo.
La corte d’appello rigetta l’opposizione di Arturo, «perché non vi sono supporti e la riluttanza della persona fragile si fonda su un senso di orgoglio non del tutto giustificato, con il rischio di non dare un’adeguata tutela ai suoi interessi».
Arturo non si rassegna a quella che ritiene un’indebita capitis deminutio, e si rivolge alla corte di cassazione, proponendo ricorso affidato a cinque motivi.
La prima sezione civile della corte gli dà ragione con ordinanza n. 24878 del 17 settembre 2024, del quale riporto l’esemplare motivazione:
«la Corte d’appello, pur correttamente enunciando il principio che l’amministrazione di sostegno è una misura a tutela della persona e che deve avvenire con la minore limitazione di capacità possibile, non ne fa corretta applicazione.
Deve qui ricordarsi che l’amministrazione di sostegno è uno strumento volto a proteggere la persona in tutto o in parte priva di autonomia, in ragione di disabilità o menomazione di qualunque tipo e gravità, senza mortificarla e senza limitarne la capacità di agire se non — e nella misura in cui — è strettamente indispensabile; la legge chiama il giudice all’impegnativo compito di adeguare la misura alla situazione concreta della persona e di variarla nel tempo, così da assicurare all’amministrato la massima tutela possibile con il minor sacrificio della sua capacità di autodeterminazione […].
Introducendo l’amministrazione di sostegno, il legislatore ha dotato l’ordinamento di una misura che può essere modellata dal giudice tutelare in relazione allo stato personale e alle circostanze di vita di ciascun beneficiario e in vista del concreto e massimo sviluppo delle sue effettive abilità. Così l’ordinamento mostra una maggiore sensibilità alla condizione delle persone con disabilità, è più attento ai loro bisogni e allo stesso tempo più rispettoso della loro autonomia e della loro dignità di quanto non fosse in passato, quando il codice civile si limitava a stabilire una netta distinzione tra soggetti capaci e soggetti incapaci, ricollegando all’una o all’altra qualificazione rigide conseguenze predeterminate. Nell’assolvere a questi compiti di protezione della persona, non è la gravità della malattia o menomazione che deve orientare il giudice, ma piuttosto la idoneità di tale strumento ad adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa […].
La flessibilità è il tratto distintivo di questa misura di protezione, che non ha una disciplina legale predeterminata in ogni suo aspetto, posto che la normativa lascia ampi spazi di regolamentazione e di adattamento della misura al caso concreto (il c.d. vestito su misura). Il giudice verifica, da un lato, le competenze della persona e cioè le sue capacità e abilità, e, dall’altro, le sue carenze, muovendo dal presupposto che la persona potrebbe essere in grado di autodeterminarsi e di esercitare con sufficiente avvedutezza taluni diritti, ovvero operare in taluni ambiti della vita sociale ed economica, mentre potrebbe non essere abile e competente in altri settori. In esito a tale verifica il giudice, oltre a decidere l’an della misura, deve anche definire e perimetrare i compiti e i poteri dell’amministratore, in termini direttamente proporzionati all’incidenza degli accertati deficit sulla capacità del beneficiario di provvedere ai suoi interessi, di modo che la misura risulti specifica e funzionale agli obiettivi individuali di tutela, altrimenti implicando un’ingiustificata limitazione della capacità di agire della persona […].
La disciplina legale della misura, come si è detto, si caratterizza per una maggiore attenzione alla dignità della persona, il che significa che la sua volontà, nei limiti del possibile, deve essere rispettata. L’opinione del beneficiario non può essere considerata minusvalente solo perché espressa da un soggetto fragile, disabile, affetto da malattia psichica, poiché in tal modo si riproporrebbe uno schema rigido fondato su regole predeterminate, spesso desunte da dogmi indimostrati e talora discriminatori; invece di valutare, come richiede un approccio orientato al rispetto dei diritti umani, se nel caso concreto è possibile ed in quale misura rispettare la volontà dell’interessato senza pregiudizio per i suoi interessi […].
In sintesi, la misura si giustifica in quanto, in primo luogo, si accerti un deficit e cioè che la persona non è in grado di provvedere, da sola o eventualmente con il supporto della rete familiare, ai suoi interessi, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica (art 404 c.c.), tenendo conto, nei limiti del possibile, della volontà del beneficiario, ovvero, se deve disporsi diversamente, motivando adeguatamente sul punto.
La misura può avere finalità di mero supporto, oppure, ove il giudice tutelare ritenga di estendere al beneficiario le limitazioni e decadenze previste per l’interdetto o l’inabilitato (art 411 c.c.) comportare il conferimento all’amministratore di specifici poteri di rappresentanza o di assistenza, analoghi rispettivamente a quelli del tutore o del curatore, e nei limiti strettamente necessari a proteggere gli interessi del beneficiario, ma non può essere essa stessa un mezzo istruttorio e di monitoraggio, poiché l’accertamento del deficit di competenze deve precedere e non seguire la misura.
Il provvedimento impugnato, pertanto, è stato reso in difformità alle norme ed ai principi che disciplinano l’amministrazione di sostegno quanto a presupposti e finalità della misura.
Ciò in primo luogo perché non individua esattamente quale sarebbe la condizione di menomata capacità del soggetto di provvedere ai suoi interessi, se non nella circostanza che avrebbe fatto un cattivo affare o meglio un affare “in termini che paiono essere tutt’altro che proficui”; manca però l’accertamento effettivo della riconducibilità di tale affare ad una condizione patologica, circostanza dedotta dal figlio del beneficiario — il quale lamenta anche che il padre gli abbia tolto l’amministrazione di una parte del patrimonio — ma non positivamente accertata dal giudice. Nel provvedimento si parla genericamente di una condizione di fragilità ma senza ulteriori specificazioni. Di conseguenza, la misura è stata finalizzata non a proteggere il soggetto da una condizione di accertata inadeguatezza a provvedere ai suoi interessi, quanto piuttosto a verificare se effettivamente detta inadeguatezza sussista e quale sia l’andamento degli affari del soggetto, con finalità di “monitoraggio”. Inoltre, la Corte ha erroneamente sminuito la portata della misura, affermando che essa non sia invasiva della sfera di autodeterminazione del beneficiario; affermazione erronea, perché la misura consente ad un terzo, contro la volontà del diretto interessato, di assumere informazioni sulla gestione dei suoi affari e in sostanza di sottoporli a controllo al fine di riferire al giudice tutelare. Si tratta quindi di una misura al tempo stesso limitativa ed esplorativa che, ancor prima di un positivo accertamento della condizione di fragilità ed anzi al fine di accertare se vi è effettivamente questa condizione di fragilità, sottopone la persona a un controllo della gestione patrimoniale contro la sua volontà. Inoltre, non è stata tenuta in alcuna considerazione l’opposizione della persona interessata, e i documenti medici da lui prodotti, se non adducendo generiche e non meglio specificate fragilità da tutelare “in via prudenziale” — espressione che in questo contesto è del tutto priva di significato — nonché argomentando su un altrettanto non meglio specificata “riluttanza” del soggetto fondata su un “senso di orgoglio” non giustificato; senza spiegare perché il legittimo orgoglio che ogni persona ha di provvedere da sé ai propri interessi non sarebbe in questo caso giustificato.
Ne consegue, in accoglimento del ricorso, la cassazione del provvedimento impugnato e il rinvio alla Corte d’appello di Venezia in diversa composizione per un nuovo esame e per la liquidazione delle spese anche del giudizio di legittimità».